Il Cammino di Viracocha
Il cammino di Viracocha, la divinità del mondo andinoAnche se fu Inti, (in quechua: Sole), il generatore della vita...
Posted by I 36 Decani on Giovedì 16 luglio 2015
Quando entrarono nel palazzo del Coricancha rimasero estasiati al vedere tanta magnificenza e ricchezza, ma non sapevano che i tre oggetti più importanti in assoluto, due di quelli rappresentanti Viracocha, la persona suprema, erano stati già portati via. Si trattava della catena d’oro di Huascar, raffigurante il serpente bicefalo, o Yawirka, il gran disco solare d’oro (con al centro il volto di Viracocha), e una statua antropomorfa, anch’essa rappresentante il Dio andino, detta Punchau (energia del Sole).
Quando circa venti anni dopo, l’erudito spagnolo Cieza de Leon giunse presso le rovine di Tiahuanaco, gli anziani Aymará della zona gli descrissero il loro Dio, come un magnifico eroe civilizzatore, creatore e riformatore del mondo, il cui nome era Viracocha.
Gli scrittori spagnoli successivi a Cieza de Leon, come Juan Diez de Betanzos e Sarmiento de Gamboa, che ricostruirono le leggende andine dopo aver passato anni a parlare con gli anziani dell’altopiano, presso le sponde del Titicaca, il lago navigabile più alto della Terra, descrissero Viracocha come un essere antropomorfo, che apparve presso l’isola del Sole (lago Titicaca), durante l’epoca del Purun Pacha (il silenzio dopo la tempesta).
Il mito vuole che in quel periodo solo l’anima del giaguaro (in aymara: Titi), dominasse le immense vallate andine. Ma Viracocha si manifestò nell’isola del Sole. Era alto, robusto, bianco, con fluenti capelli biondi e barbuto. Era venuto per stabilire l’ordine, creare, rigenerare, civilizzare.
Aveva poteri immensi: poteva far piovere, appianare le montagne, deviare i fiumi. Creò il cielo e la Terra. Poi diede origine ai giganti, chiamati Waris Runa, il cui capostipite, detto Pirua, diede il suo nome al Perú intero.
Ordinò ai giganti di adorare il Wari, un essere mitico con il corpo di una macrauchenia (un grosso mammifero che fu reale, somigliante ad un arcaico equino), con muso di un felino (Titi), e le ali di un condor.
I giganti eressero così i primi templi per l’adorazione di Viracocha, di Wari, e del Sole (Willka, in aymara).
Secondo le credenze ricompilate da Sarmiento de Gamboa, i giganti furono irrispettosi nei confronti di Viracocha, che si vendicò scatenando il diluvio universale (Uno Pachaci).
Secondo Blas Valera il nome primordiale di Dio era Illa Tiki, che in aymara significherebbe “luce originale”. Il nome Viracocha invece gli sarebbe stato attribuito solo in seguito, quando scomparve nel mare di Tumbes (Vira, spuma; cocha, specchio d’acqua).
Dopo il diluvio, il Creatore divise il mondo in quattro parti, e forgiò gli esseri umani, che separò in quattro popoli che si dipartirono dal centro, ovvero dal Titicaca (Titi, giaguaro; kaka, pesce). I suoi tre discepoli, che ebbero il compito di creare gli animali, le piante e i fiori, si chiamarono: Manco (legislatore), Colla e Tokay.
A questo punto la leggenda narra che Viracocha intraprese un viaggio, in direzione nord-ovest.
Giunto nel sito di Raqchi, subì l’affronto dei suoi abitanti, che si negarono di ascoltarlo e lo scacciarono, tirandogli delle pietre. Viracocha si vendicò facendo piovere fuoco su Raqchi, calcinando tutti i suoi abitanti. (nell’era incaica a Raqchi fu poi eretto un grandioso tempio dedicato a Viracocha, anch’esso saccheggiato dagli spagnoli, che cercavano il Punchau).
Il cammino di Viracocha continuò verso nord-ovest e giunse dove oggi sorge il Cusco, quindi proseguì seguendo un percorso rettilineo fino a giungere al mare nei pressi di Tumbes. In quelle spiagge, dove lo attendevano i suoi discepoli, Viracocha camminò sulle acque, e si allontanò con i suoi seguaci nell’immensità dell’oceano. Da quel momento fu detto appunto Viracocha, ovvero: “spuma dell’oceano”.
La leggenda di Viracocha ha scatenato nel corso degli ultimi decenni i più accesi dibattiti tra gli storici. Alcuni sono addirittura giunti a sostenere che il Dio andino non era altro che Jehová, che terminava la creazione nel Nuovo Mondo. Altri, che utilizzano il nome esteso Kon Tiki Illa Viracocha, sostennero che fu semplicemente il “Creatore del mondo”.
Chi era realmente Viracocha? Forse un uomo, dotato di poteri magici e considerato dai suoi seguaci come Dio Assoluto? O forse un uomo, dotato di poteri sopranaturali che, come Gesù, era considerato il figlio di Dio?
E’ verosimile la tesi d’alcuni studiosi che considerano addirittura Viracocha come un discendente di popoli nordici accidentalmente giunto presso il lago Titicaca?
La studiosa di mitologia andina Maria Scholten (1926-2007), fu la sostenitrice, nel suo libro La ruta di Viracocha (1977), che, durante il suo viaggio, Viracocha pose le fondamenta di future città, che furono costruite in seguito.
La studiosa comprovò l’esistenza di una gran croce quadrata (chacana), il cui centro veniva fissato nel inizialmente a Tihuanaco e in seguito nel Cusco.
Il disegno geometrico era diviso a metà da una linea che formava un angolo di 45 gradi rispetto all’equatore. Detta linea, detta Capac Ñan, fu proprio il cammino percorso da Viracocha.
La Scholten (che basava le sue ricerche sul libro del 1613 Relacion de antiguedades deste Reino del Perú, dello scrittore indigeno Santa Cruz Pachacutic Yamqui Salcamayhua), verificò che Tiahuanaco, Copacabana, Pukara, Raqchi, Cusco (Sacsayhuaman), Ollantaytambo, Machu Picchu, Vitcos e Cajamarca sono tutti siti archeologici “allineati” secondo il percorso seguito da Viracocha, una linea che unisce Tiahuanaco con Tumbes.
Da notare che la linea perpendicolare al “cammino di Viracocha”, quella che si diparte da Tiahuanaco verso nord-est, tocca l’oceano Atlantico presso l’isola di Marajò, l’estuario del Rio delle Amazzoni. Forse il luogo dove Viracocha giunse in Sud America?
Secondo il ricercatore boliviano Freddy Arce, la croce quadrata avrebbe il suo centro in Tiahuanaco e il suo studio sarebbe importante per individuare l’ubicazione del Paititi, che corrisponderebbe, nella sua personale interpretazione, al vertice di nord-est.
Sembra che nel considerare questi quadrati formati a loro volta da altri piccoli quadrati, Maria Scholten desse particolare rilevanza alle diagonali. Nel suo articolo La ruta de Viracocha, Freddy Arce fa notare che la parola “diagonale”, viene tradotta Chekhalluwa, che significa anche verità, in quechua.
Qualunque sia la vera origine di Viracocha, in effetti è molto strano che molti siti archeologici dell’antico mondo andino siano allineati in modo così misterioso.
di Yury Leveratto
Fonte
Quando circa venti anni dopo, l’erudito spagnolo Cieza de Leon giunse presso le rovine di Tiahuanaco, gli anziani Aymará della zona gli descrissero il loro Dio, come un magnifico eroe civilizzatore, creatore e riformatore del mondo, il cui nome era Viracocha.
Gli scrittori spagnoli successivi a Cieza de Leon, come Juan Diez de Betanzos e Sarmiento de Gamboa, che ricostruirono le leggende andine dopo aver passato anni a parlare con gli anziani dell’altopiano, presso le sponde del Titicaca, il lago navigabile più alto della Terra, descrissero Viracocha come un essere antropomorfo, che apparve presso l’isola del Sole (lago Titicaca), durante l’epoca del Purun Pacha (il silenzio dopo la tempesta).
Il mito vuole che in quel periodo solo l’anima del giaguaro (in aymara: Titi), dominasse le immense vallate andine. Ma Viracocha si manifestò nell’isola del Sole. Era alto, robusto, bianco, con fluenti capelli biondi e barbuto. Era venuto per stabilire l’ordine, creare, rigenerare, civilizzare.
Aveva poteri immensi: poteva far piovere, appianare le montagne, deviare i fiumi. Creò il cielo e la Terra. Poi diede origine ai giganti, chiamati Waris Runa, il cui capostipite, detto Pirua, diede il suo nome al Perú intero.
Ordinò ai giganti di adorare il Wari, un essere mitico con il corpo di una macrauchenia (un grosso mammifero che fu reale, somigliante ad un arcaico equino), con muso di un felino (Titi), e le ali di un condor.
I giganti eressero così i primi templi per l’adorazione di Viracocha, di Wari, e del Sole (Willka, in aymara).
Secondo le credenze ricompilate da Sarmiento de Gamboa, i giganti furono irrispettosi nei confronti di Viracocha, che si vendicò scatenando il diluvio universale (Uno Pachaci).
Secondo Blas Valera il nome primordiale di Dio era Illa Tiki, che in aymara significherebbe “luce originale”. Il nome Viracocha invece gli sarebbe stato attribuito solo in seguito, quando scomparve nel mare di Tumbes (Vira, spuma; cocha, specchio d’acqua).
Dopo il diluvio, il Creatore divise il mondo in quattro parti, e forgiò gli esseri umani, che separò in quattro popoli che si dipartirono dal centro, ovvero dal Titicaca (Titi, giaguaro; kaka, pesce). I suoi tre discepoli, che ebbero il compito di creare gli animali, le piante e i fiori, si chiamarono: Manco (legislatore), Colla e Tokay.
A questo punto la leggenda narra che Viracocha intraprese un viaggio, in direzione nord-ovest.
Giunto nel sito di Raqchi, subì l’affronto dei suoi abitanti, che si negarono di ascoltarlo e lo scacciarono, tirandogli delle pietre. Viracocha si vendicò facendo piovere fuoco su Raqchi, calcinando tutti i suoi abitanti. (nell’era incaica a Raqchi fu poi eretto un grandioso tempio dedicato a Viracocha, anch’esso saccheggiato dagli spagnoli, che cercavano il Punchau).
Il cammino di Viracocha continuò verso nord-ovest e giunse dove oggi sorge il Cusco, quindi proseguì seguendo un percorso rettilineo fino a giungere al mare nei pressi di Tumbes. In quelle spiagge, dove lo attendevano i suoi discepoli, Viracocha camminò sulle acque, e si allontanò con i suoi seguaci nell’immensità dell’oceano. Da quel momento fu detto appunto Viracocha, ovvero: “spuma dell’oceano”.
La leggenda di Viracocha ha scatenato nel corso degli ultimi decenni i più accesi dibattiti tra gli storici. Alcuni sono addirittura giunti a sostenere che il Dio andino non era altro che Jehová, che terminava la creazione nel Nuovo Mondo. Altri, che utilizzano il nome esteso Kon Tiki Illa Viracocha, sostennero che fu semplicemente il “Creatore del mondo”.
Chi era realmente Viracocha? Forse un uomo, dotato di poteri magici e considerato dai suoi seguaci come Dio Assoluto? O forse un uomo, dotato di poteri sopranaturali che, come Gesù, era considerato il figlio di Dio?
E’ verosimile la tesi d’alcuni studiosi che considerano addirittura Viracocha come un discendente di popoli nordici accidentalmente giunto presso il lago Titicaca?
La studiosa di mitologia andina Maria Scholten (1926-2007), fu la sostenitrice, nel suo libro La ruta di Viracocha (1977), che, durante il suo viaggio, Viracocha pose le fondamenta di future città, che furono costruite in seguito.
La studiosa comprovò l’esistenza di una gran croce quadrata (chacana), il cui centro veniva fissato nel inizialmente a Tihuanaco e in seguito nel Cusco.
Il disegno geometrico era diviso a metà da una linea che formava un angolo di 45 gradi rispetto all’equatore. Detta linea, detta Capac Ñan, fu proprio il cammino percorso da Viracocha.
La Scholten (che basava le sue ricerche sul libro del 1613 Relacion de antiguedades deste Reino del Perú, dello scrittore indigeno Santa Cruz Pachacutic Yamqui Salcamayhua), verificò che Tiahuanaco, Copacabana, Pukara, Raqchi, Cusco (Sacsayhuaman), Ollantaytambo, Machu Picchu, Vitcos e Cajamarca sono tutti siti archeologici “allineati” secondo il percorso seguito da Viracocha, una linea che unisce Tiahuanaco con Tumbes.
Da notare che la linea perpendicolare al “cammino di Viracocha”, quella che si diparte da Tiahuanaco verso nord-est, tocca l’oceano Atlantico presso l’isola di Marajò, l’estuario del Rio delle Amazzoni. Forse il luogo dove Viracocha giunse in Sud America?
Secondo il ricercatore boliviano Freddy Arce, la croce quadrata avrebbe il suo centro in Tiahuanaco e il suo studio sarebbe importante per individuare l’ubicazione del Paititi, che corrisponderebbe, nella sua personale interpretazione, al vertice di nord-est.
Sembra che nel considerare questi quadrati formati a loro volta da altri piccoli quadrati, Maria Scholten desse particolare rilevanza alle diagonali. Nel suo articolo La ruta de Viracocha, Freddy Arce fa notare che la parola “diagonale”, viene tradotta Chekhalluwa, che significa anche verità, in quechua.
Qualunque sia la vera origine di Viracocha, in effetti è molto strano che molti siti archeologici dell’antico mondo andino siano allineati in modo così misterioso.
di Yury Leveratto
Fonte
Il Filo di Arianna
MITI&LEGGENDE - Il Filo di Arianna"Misera, e chi n'ha toltoil mio dolce compagno?Lassa, perchè quel bene,ch'Espero...
Posted by I 36 Decani on Giovedì 25 giugno 2015
In un'epoca molto lontana della quale quasi si è persa ormai la memoria, si racconta che mentre Europa, figlia di Fenice e di Telefassa, era intenta a giocare con le sue ancelle, le apparve un torello candido come la neve che altri non era che Zeus. Questo, dopo averla fatta montare sulla sua groppa, la portò a Creta dove si unì a lei e poco dopo da questa unione nacquero Minosse, Radamanto e Sarpedone. Quando Zeus lasciò Europa, quest'ultima sposò Asterione, re di Creta e poichè le loro nozze si rivelarono sterili, Asterione adottò i tre figli di Europa e li nominò suoi eredi legittimi. Alla morte di Asterione, Minosse rivendicò per se il trono di Creta dichiarando che quello era il volere degli dei e per essere certo di riuscire nell'impresa, pregò Poseidone di fare uscire qualcosa dalle acque del mare con la promessa di offrirlo poi in sacrificio al dio a testimonianza del volere degli dei.
Poseidone accolse le preghiere di Minosse e fece uscire dalle onde del mare un magnifico toro bianco, che valse a Minosse il regno di Creta. Quest'ultimo però, tanta era la bellezza del toro, non ebbe coraggio a ucciderlo e in sua vece sacrificò un altro toro. Il re del mare, offeso per l'affronto subito, si vendicò in modo tanto crudele da restare come monito per le generazioni future.. Fece accoppiare Pasifae, con il toro, e dalla loro unione naque il Minotauro, una creatura dal corpo di uomo e la testa di toro che si nutriva solo di carne umana. In questo modo il dio del mare volle per sempre ricordare a Minosse quanto folle sia l'azione di un uomo che si ribella al potere degli dei. Minosse, quando vide la creatura, diede incarico a Dedalo di costruire un labirinto talmente intricato dal quale nessuno sarebbe potuto uscire, per rinchiudervi il Minotauro, in modo che non avesse alcuna possibilità di fuga. Dedalo, nella speranza di guadagnarsi la fiducia del sovrano, costruì quello che è noto alla storia come il labirinto di Cnosso.
Vuole così la leggenda che il Minotauro venisse rinchiuso nel labirinto e che ogni anno sette giovani e sette fanciulle ateniesi venissero sacrificati al Minotauro per saziare la sua fame di carne umana.
Per due volte fu ripetuto il sacrificio fino a quando, alla terza spedizione, giunse a Creta Teseo, figlio di Etra ed Egeo, sovrano di Atene, che si finse parte del gruppo dei sacrificandi, al solo scopo di porre fine a quelle crudeltà. L'impresa era molto difficile non solo perchè doveva uccidere il Minotauro, ma perchè una volta entrato nel labirinto, era impossibile uscirne. Il giovane chiese allora aiuto ad Arianna figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro, alla quale dichiarò il suo amore e questa a sua volta, innamoratasi perdutamente di Teseo, si consigliò con Dedalo che gli suggerì di legare all'ingresso del labirinto un filo che sarebbe stato dipanato mano mano che si procedeva. In questo modo sulla via del ritorno, riavvolgendolo, si sarebbe trovata l'uscita.
Quando fu il turno di Teseo di essere sacrificato al Minotauro questi dipanò il filo lungo la strada e quando giunse al cospetto del mostro lo uccise e riavvolgendo il filo, riuscì a uscire dal labirinto. Finì così l'orrendo sacrificio che era stato imposto da Minosse agli ateniesi e contemporaneamente Teseo e Arianna fuggivano insieme da Creta e approdarono all'odierna Nasso (allora Dia). La mattina quando Arianna si svegliò si accorse però che Teseo l'aveva abbandonata.
Sul perchè Teseo abbandonò Arianna esistono diversi racconti. Alcuni affermano che fu a causa di una nuova amante, Egle figlia di Panopeo; altri affermano che decise di abbandonarla in quanto tornare ad Atene con lei sarebbe stato uno scandalo; altri affermano che Dioniso, apparso in sogno a Teseo, gli ordinò di abbandonarla perchè la voleva per se. Quale che fosse il motivo è certo che al suo risveglio Arianna cercò disperatamente il suo amato e pianse lacrime amare quando si rese conto di essere sola. Visto il pianto straziante della fanciulla che urlava di dolore, arrivò in suo soccorso Dioniso che la sposò e gli donò una bellissima corona d'oro, tempestata di rubini, forgiata da Efesto che venne alla sua morte mutata in costellazione: la costellazione di Arianna.
Dioniso e Arianna ebbero numerosi figli tra i quali Toante, Enopione.
Teseo, dopo l'abbandono di Arianna fece ritorno in patria ad Atene dove, dopo breve tempo, divenne re al posto del padre e governò con saggezza e il suo popolo conobbe un lungo periodo di pace e prosperità.
Poseidone accolse le preghiere di Minosse e fece uscire dalle onde del mare un magnifico toro bianco, che valse a Minosse il regno di Creta. Quest'ultimo però, tanta era la bellezza del toro, non ebbe coraggio a ucciderlo e in sua vece sacrificò un altro toro. Il re del mare, offeso per l'affronto subito, si vendicò in modo tanto crudele da restare come monito per le generazioni future.. Fece accoppiare Pasifae, con il toro, e dalla loro unione naque il Minotauro, una creatura dal corpo di uomo e la testa di toro che si nutriva solo di carne umana. In questo modo il dio del mare volle per sempre ricordare a Minosse quanto folle sia l'azione di un uomo che si ribella al potere degli dei. Minosse, quando vide la creatura, diede incarico a Dedalo di costruire un labirinto talmente intricato dal quale nessuno sarebbe potuto uscire, per rinchiudervi il Minotauro, in modo che non avesse alcuna possibilità di fuga. Dedalo, nella speranza di guadagnarsi la fiducia del sovrano, costruì quello che è noto alla storia come il labirinto di Cnosso.
Vuole così la leggenda che il Minotauro venisse rinchiuso nel labirinto e che ogni anno sette giovani e sette fanciulle ateniesi venissero sacrificati al Minotauro per saziare la sua fame di carne umana.
Per due volte fu ripetuto il sacrificio fino a quando, alla terza spedizione, giunse a Creta Teseo, figlio di Etra ed Egeo, sovrano di Atene, che si finse parte del gruppo dei sacrificandi, al solo scopo di porre fine a quelle crudeltà. L'impresa era molto difficile non solo perchè doveva uccidere il Minotauro, ma perchè una volta entrato nel labirinto, era impossibile uscirne. Il giovane chiese allora aiuto ad Arianna figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro, alla quale dichiarò il suo amore e questa a sua volta, innamoratasi perdutamente di Teseo, si consigliò con Dedalo che gli suggerì di legare all'ingresso del labirinto un filo che sarebbe stato dipanato mano mano che si procedeva. In questo modo sulla via del ritorno, riavvolgendolo, si sarebbe trovata l'uscita.
Quando fu il turno di Teseo di essere sacrificato al Minotauro questi dipanò il filo lungo la strada e quando giunse al cospetto del mostro lo uccise e riavvolgendo il filo, riuscì a uscire dal labirinto. Finì così l'orrendo sacrificio che era stato imposto da Minosse agli ateniesi e contemporaneamente Teseo e Arianna fuggivano insieme da Creta e approdarono all'odierna Nasso (allora Dia). La mattina quando Arianna si svegliò si accorse però che Teseo l'aveva abbandonata.
Sul perchè Teseo abbandonò Arianna esistono diversi racconti. Alcuni affermano che fu a causa di una nuova amante, Egle figlia di Panopeo; altri affermano che decise di abbandonarla in quanto tornare ad Atene con lei sarebbe stato uno scandalo; altri affermano che Dioniso, apparso in sogno a Teseo, gli ordinò di abbandonarla perchè la voleva per se. Quale che fosse il motivo è certo che al suo risveglio Arianna cercò disperatamente il suo amato e pianse lacrime amare quando si rese conto di essere sola. Visto il pianto straziante della fanciulla che urlava di dolore, arrivò in suo soccorso Dioniso che la sposò e gli donò una bellissima corona d'oro, tempestata di rubini, forgiata da Efesto che venne alla sua morte mutata in costellazione: la costellazione di Arianna.
Dioniso e Arianna ebbero numerosi figli tra i quali Toante, Enopione.
Teseo, dopo l'abbandono di Arianna fece ritorno in patria ad Atene dove, dopo breve tempo, divenne re al posto del padre e governò con saggezza e il suo popolo conobbe un lungo periodo di pace e prosperità.
Mito egizio di Rie
Mito egizio di RieSignore di tutti gli dei e creatore del mondo era un antico dio, Rie, la cui sede preferita era il...
Posted by I 36 Decani on Mercoledì 17 giugno 2015
- Non lo so - rispose gemendo Rie – Qualcosa mi ha ferito, qualche malefico essere che non conosco e che non è stato creato da me. Non è fuoco, non è acqua, e tuttavia il cuore mi brucia come se fosse arso e ho le membra fredde come se fossi immerso nell'acqua gelida.
In realtà quel serpente non era stato creato da Rie e nulla egli poteva fare contro quella creatura non sua. Gli dei riuniti intorno a lui erano sgomentati: se Rie fosse morto portando con sé il segreto del suo nome, nessuno di loro avrebbe mai più potuto raggiungere la vera potenza e la reggia celeste rimasta priva di un reggitore supremo.
Allora Iside si fece avanti e disse al ferito che avrebbe potuto guarirlo a una condizione: che le rivelasse il suo nome segreto. Rie comprese che, in tal caso, avrebbe finito per sempre di essere il vero re degli dei, pur restando in vita, e fece di tutto per persuadere la dea a guarirlo disinteressatamente: le ricordò che egli aveva creato tutte le cose viventi e gli stessi dei, e tentò infine di indurla ad accontentarsi di qualcuno dei suoi diversi nomi minori in ognuno dei quali era racchiusa una virtù. Ma Iside fu inflessibile.
- Non dipende soltanto da me - disse – Il veleno che ha assalito il tuo corpo con lo stesso impeto con cui le acque del Nilo occupano i campi quando sono in piena, è di tale potenza che non può essere vinto se non da chi pronunzi il tuo nome segreto.
Rie dovette rassegnarsi, si appartò con Iside e le confidò quando voleva sapere. Subito il veleno si allontanò da lui, ma da allora il signore degli dei, come si aspettava, fu considerato con assai minor rispetto dalle divinità.
Proseguendo nella vecchiaia, l’antico dio fu del tutto incapace di muoversi: le sue ossa divennero d’argento, il suo corpo d’oro, i capelli di pietre preziose. Era ormai un prezioso idolo apparentemente privo di vita. Gli uomini, che pure erano sue creature, non ebbero più paura di lui, lo derisero e gli dei si ribellarono. Ma Rie manteneva ancora una vitalità che si era raccolta tutta nel suo occhio dal quale, a un certo momento, dardeggiò un terribile sguardo. Simile a un raggio folgorante, quello sguardo assunse la forma della dea Athor e subito si scagliò sull'ingrato genere umano che, atterrito, corse a rifugiarsi nel deserto abbandonando le città e le campagne. Ma Athor inseguì furiosa gli uomini, li raggiunse e ne fece sterminio senza pietà. Poi tornò da Rie gloriandosi della sua impresa. Rie dapprima fu soddisfatto della vendetta, ma più tardi si allarmò accorgendosi che Athor voleva continuare la sua opera distruzione e cancellare l’uomo dalla faccia della terra. Per evitare tale pericolo, il dio, ormai incapace di muoversi e di frenare la terribile energia distruttrice che era scaturita dal suo occhio, escogitò un’astuzia. Fece preparare da geni e da demoni una bevanda composta di birra e di succo di melograno, rossa come sangue, e ordinò che fosse versata nel deserto così da sembrare un grande lago. Quando Athor si accinse allo sterminio, vide quel lago, lo credette sangue e lo bevve avidamente, dimenticando nell'ebbrezza quel che voleva fare.
L’umanità fu salva. Tuttavia Rie, ormai stanco e amareggiato, decise di ritirarsi. Trasformò in giovenca la dea Nut, le salì in groppa e si fece portare da lei negli alti cieli. Si limitò a dirigere il corso del sole e non volle più occuparsi delle vicende degli uomini.
Fonte
In realtà quel serpente non era stato creato da Rie e nulla egli poteva fare contro quella creatura non sua. Gli dei riuniti intorno a lui erano sgomentati: se Rie fosse morto portando con sé il segreto del suo nome, nessuno di loro avrebbe mai più potuto raggiungere la vera potenza e la reggia celeste rimasta priva di un reggitore supremo.
Allora Iside si fece avanti e disse al ferito che avrebbe potuto guarirlo a una condizione: che le rivelasse il suo nome segreto. Rie comprese che, in tal caso, avrebbe finito per sempre di essere il vero re degli dei, pur restando in vita, e fece di tutto per persuadere la dea a guarirlo disinteressatamente: le ricordò che egli aveva creato tutte le cose viventi e gli stessi dei, e tentò infine di indurla ad accontentarsi di qualcuno dei suoi diversi nomi minori in ognuno dei quali era racchiusa una virtù. Ma Iside fu inflessibile.
- Non dipende soltanto da me - disse – Il veleno che ha assalito il tuo corpo con lo stesso impeto con cui le acque del Nilo occupano i campi quando sono in piena, è di tale potenza che non può essere vinto se non da chi pronunzi il tuo nome segreto.
Rie dovette rassegnarsi, si appartò con Iside e le confidò quando voleva sapere. Subito il veleno si allontanò da lui, ma da allora il signore degli dei, come si aspettava, fu considerato con assai minor rispetto dalle divinità.
Proseguendo nella vecchiaia, l’antico dio fu del tutto incapace di muoversi: le sue ossa divennero d’argento, il suo corpo d’oro, i capelli di pietre preziose. Era ormai un prezioso idolo apparentemente privo di vita. Gli uomini, che pure erano sue creature, non ebbero più paura di lui, lo derisero e gli dei si ribellarono. Ma Rie manteneva ancora una vitalità che si era raccolta tutta nel suo occhio dal quale, a un certo momento, dardeggiò un terribile sguardo. Simile a un raggio folgorante, quello sguardo assunse la forma della dea Athor e subito si scagliò sull'ingrato genere umano che, atterrito, corse a rifugiarsi nel deserto abbandonando le città e le campagne. Ma Athor inseguì furiosa gli uomini, li raggiunse e ne fece sterminio senza pietà. Poi tornò da Rie gloriandosi della sua impresa. Rie dapprima fu soddisfatto della vendetta, ma più tardi si allarmò accorgendosi che Athor voleva continuare la sua opera distruzione e cancellare l’uomo dalla faccia della terra. Per evitare tale pericolo, il dio, ormai incapace di muoversi e di frenare la terribile energia distruttrice che era scaturita dal suo occhio, escogitò un’astuzia. Fece preparare da geni e da demoni una bevanda composta di birra e di succo di melograno, rossa come sangue, e ordinò che fosse versata nel deserto così da sembrare un grande lago. Quando Athor si accinse allo sterminio, vide quel lago, lo credette sangue e lo bevve avidamente, dimenticando nell'ebbrezza quel che voleva fare.
L’umanità fu salva. Tuttavia Rie, ormai stanco e amareggiato, decise di ritirarsi. Trasformò in giovenca la dea Nut, le salì in groppa e si fece portare da lei negli alti cieli. Si limitò a dirigere il corso del sole e non volle più occuparsi delle vicende degli uomini.
Fonte
Il Diluvio Universale secondo la Mitologia greca
Prometeo aveva un figlio, Deucalione che aveva sposato Pirra, sua cugina, in quanto figlia del fratello di suo padre, Epimèteo. I due giovani sposi si stabilirono a Ftia, ai piedi del monte Parnaso, dove cercarono di regnare nel bene e sforzandosi di dare la pace ai proprio sudditi.
Gli uomini però, usciti dal mondo primitivo grazie all'illuminazione del fuoco e agli insegnamenti di Prometeo, inziarono a sentirsi al pari degli dèi, trascurando gli obblighi religiosi; i popoli divennero superbi, cattivi e maligni, si armarono gli uni contro gli altri e sulla Terra scoppiarono molte guerre che portarono alla rovina molte città. Zeus allora decise di distruggere il genere umano, sommergendolo sotto le acque col Diluvio Universale. Tutti gli uomini morirono, meno due Pirra e Deucalione, perché Zeus sapeva che egli era l'unico principe onesto, giusto e religioso, e Pirra, l'unica donna savia e virtuosa che esistesse, perciò bisognava salvarli. Per volere di Zeus furono messi su una barca e vi navigarono per tutta la durata del Diluvio, nove giorni, fino a quando la barca non approdò sulla vetta del Parnaso, e l'unica coppia umana sopravvissuta al castigo divino poté finalmente scendere e toccare la terra. Deucalione e Pirra si ritrovarono uno spettacolo di desolazione, di rovine, camminarono fino ad una valle dove trovarono un tempio. Lo riconobbero per l'oracolo di Temi, la dea della giustizia; lo consultarono e ne ebbero questa enigmatica risposta:"Uscite dal tempio e gettate dietro le vostre spalle le ossa della Gran Madre". Stettero a lungo a pensare a queste parole ma un giorno Deucalione si illuminò e capì che la Gran Madre era la terra, e le ossa della Terra erano le pietre; così le pietre gettate da Deucalione, appena toccarono la terra, diventarono uomini e quelle gettate da Pirra, diventarono donne. In questo modo la Terra si ripopolò. |
Il Mito di Boote
Posta nelle vicinanze della coda dell'Orsa Maggiore, questa costellazione è legata alla figura di un pastore che prende il nome di Boote, che deriva probabilmente dalla parola greca "boutes" che significa "bovaro", ma anche "bifolco". Alcuni ritengono che tale nome significhi "colui che spinge avanti il bue", dato che il Grande Carro dell'Orsa Maggiore sembra essere trainato da buoi. Per i Greci questa costellazione si chiamava anche "Arctophylax", cioè "sorvegliante dell'orso, riferito ovviamente all'Orsa Maggiore. Arato lo rappresenta come un uomo che fa girare l'Orsa intorno al polo:
...Simile ad un che sia intento a sospingere,
diretto ad Elice viene Artofilace,
che Boote è dagli uomini chiamato,
perché il Carro dell?Orsa par che tocchi;
e tutto è distinguibile, per quanto
sotto il cinto gli ruoti l?astro stesso
di Arturo, ben visibile fra gli altri...
diretto ad Elice viene Artofilace,
che Boote è dagli uomini chiamato,
perché il Carro dell?Orsa par che tocchi;
e tutto è distinguibile, per quanto
sotto il cinto gli ruoti l?astro stesso
di Arturo, ben visibile fra gli altri...
Successivamente gli astronomi considerarono di appartenenza del pastore i vicini Cani da Caccia. La sua stella più brillante, nonché la quarta stella più brillante di tutta la volta celeste, è Arturo, dalla parola greca "arktouros" che significa "guardia dell'Orso".Secondo Eratostene il pastore sarebbe Arcas, figlio di Zeus e Callisto, figlia di Licaone, Re di Arcadia. Quest'ultimo un giorno avendo Zeus in persona a pranzo volle accertarsi della sua vera identità: quindi fece a pezzi Arcas (o lo fecero i loro figli) e mischiò le sue carni con quelle della grigliata mista per vedere se suo padre ne avesse riconosciuta la provenienza. Zeus si accorse subito della nefandezza e uccise folgorati tutti i figli di Licaone che venne poi trasformato in lupo. Con cura il sommo dio raccolse i pezzi, ricompose il suo figliolo e lo affidò alla Pleiade Maia affinché lo crescesse. Intanto la madre Callisto venne trasformata in Orsa, forse da Zeus per farla sfuggire alle ire della moglie Era o forse proprio da quest'ultima per vendetta, o forse ancora da Artemide. Arcas divenne adulto e durante una battuta di caccia incontrò la madre sotto forma di orsa: quest'ultima per manifestargli la sua gioia nel rivederlo emise un verso poco confortante, tant'è che l'ignaro figlio cominciò ad inseguirla per ucciderla. Callisto fuggì e si rifugiò nel tempio di Zeus il cui accesso era proibito ai profanatori, pena la loro morte. Per evitarle tale punizione Zeus mise in cielo lei e suo figlio, che, venuto a conoscenza della vera identità dell'animale, divenne suo custode. Secondo Igino la costellazione rappresenterebbe Icaro: non si tratta di colui che con le ali di cera cadde avvicinandosi troppo al sole, bensì di colui al quale il dio Dioniso insegnò a coltivare la vite e a fare il vino. Un giorno Icaro offrì del vino nuovo a dei pastori, ma essi si sentirono male e, pensando si trattasse di un suo tentativo di avvelenamento, lo uccisero. Il cane di Icaro apprese il mesto evento e lo fece intendere anche alla figlia Erigone che per la disperazione s'impiccò all'albero dove giaceva il cadavere del padre. Anche il cane poi morì di dolore per aver perso entrambi i padroni. Zeus commosso mise in cielo la figura di Icaro (rappresentato dal Boote), di sua figlia (rappresentata dalla Vergine) e del cane (rappresentato dal Cane Maggiore o Minore, a seconda delle interpretazioni).
LA LEGGENDA DEI CORVI
Un tempo tutti i corvi erano bianchi come la neve. In quei tempi antichi la gente si procurava cibo cacciando il bufalo usando solo pietre e archi e non avevano altre armi. Inoltre i corvi erano amici dei bufali e li proteggevano contro i cacciatori. Uno dei corvi erano molto grande ed era la guida di tutti gli altri. Dall’alto puntavano i cacciatori e davano l’allarme, così i loro amici bufali scappavano via. La gente, che soffriva la fame, tenne un consiglio per decidere il da farsi. Un vecchio e saggio capo propose di catturare il grosso corvo bianco con l’astuzia. Travestì un giovane, mettendogli una grande pelle di bufalo sul corpo, completa della testa e delle corna e gli disse di insinuarsi tra i bufali. Camuffato da bufalo, il giovane strisciò tra la mandria e nessun animale gli prestò attenzione. Quando i suoi compagni cacciatori si avvicinarono, i corvi in volo diedero l’allarme e tutti i bufali fuggirono, tranne il giovane, che fece finta di pascolare. Allora il grosso corvo bianco gli si avvicinò per spingerlo alla fuga, ma il giovane lestamente lo afferrò e gli legò le zampe. La tribù decise di bruciare il corvo come punizione. Il corvo, benché fosse legato, riuscì a liberarsi quando la corda che gli legava le zampe si bruciò anch'essa. Bruciacchiato, spelacchiato e annerito, egli fuggì via e decise di non occuparsi mai più dei bufali. Fonte
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LE STATUE PARLANTI DI ROMA
Dal 1501 Pasquino si trova ad un angolo di palazzo Braschi, alle spalle di piazza Navona, si tratta di un torso di figura maschile, la copia di un originale bronzeo risalente al III secolo a.c., facente parte di un antico gruppo statuario ellenistico, raffigurante Menelao che sorregge il corpo di Patroclo. Ma è così male conservato che dire con certezza chi rappresenti è impossibile, forse un re o un eroe dell'antica Grecia. Non si può dire con sicurezza quale sia l’origine del suo nome, forse il nome di un sarto, di un barbiere o semplicemente di un professore della zona.Un interlocutore di Pasquino è Marforio poiché in alcune delle satire le statue dialogavano tra di loro. Anche in questo caso si tratta di una statua antica. La colossale statua barbuta distesa su un fianco, oggi in piazza del Campidoglio, un tempo era ai piedi del colle Capitolino, raffigura l’Oceano, il Tevere oppure il fiume Nera. Il marmo, risalente al I secolo a.C. fu ritrovato nel Foro Romano vicino ad una conca di granito nei pressi dell’Arco di Settimio Severo. Sulla conca vi era scritto “mare in foro”: dalla deformazione di questa iscrizione, per alcuni, deriverebbe il nome di Marforio. Per altri l’etimologia di questo nome deriverebbe dalla famiglia Marioli, che nel XIV secolo risiedeva nei pressi del Carcere Mamertino, oppure trae origine dal Foro di Marte (“Mars Fori”). Tra le Statue Parlanti minori troviamo Madama Lucrezia, una giunonica figura, proveniente da un tempio dedicato a Iside, raffigurante forse una sacerdotessa di questo culto o forse la stessa Iside. Situata in un angolo di Piazza San Marco adiacente Piazza Venezia. Il nome gli deriva da una nobile dama, che visse nel XV secolo, molto conosciuta al suo tempo. Si era innamorata del re di Napoli, il quale era già sposato; per questo motivo Lucrezia venne a Roma per cercare di ottenere dal papa la concessione del divorzio per il sovrano, ma il tentativo fallì. L'anno seguente il re morì; l'ostilità del suo successore costrinse la dama a tornare a Roma, dove abitò appunto presso la suddetta piazza. Altre figure che riuscirono a colpire l’immaginario popolare per il loro aspetto sono: Abate Luigi, Facchino e Babuino. Fonte: mitiemisteri.it
LE SETTE STELLE
LA LEGGENDA DEI PIEDI NERI
Un tempo c’era una giovane molto bella. Era rimasta orfana da molti anni e viveva col padre, sette fratelli e una sorellina. Tanti giovani volevano sposarla, ma lei li respingeva tutti. Aveva un orso come amante e lo incontrava di nascosto quando i fratelli andavano a caccia col padre; in questi casi andava a far legna nel bosco, lasciando la sorellina sola in casa. Quando la sorellina crebbe notò che la sorella impiegava troppo tempo a prendere la legna, così un giorno la seguì e scoprì che era l’amante dell’orso. Corse a casa velocemente e raccontò al padre ciò che aveva visto. Il padre capì che era quella la ragione per cui la figlia maggiore non si voleva sposare; chiese aiuto a tutti i cacciatori e andò con loro nel bosco a uccidere l’orso. I cacciatori trovarono l'orso e lo uccisero. La giovane andò su tutte le furie; con la carne dell’orso morto, acquistò il potere di trasformarsi in orso. Si recò nel villaggio e uccise tutti gli abitanti, poi riprese il suo aspetto normale. La sorellina raccontò tutto ai fratelli. Essi ebbero timore che la sorella potesse ucciderle anche loro. Decisero di andarsene e partirono il più velocemente possibile. La sorella maggiore si trasformò in un'orsa per inseguirli. Stava per raggiungerli quando uno dei ragazzi prese un po' d'acqua e la spruzzò tutt'intorno. Immediatamente si formò un grande lago fra loro e l’orsa. I bambini si misero a correre mentre l'orsa li seguiva; furono raggiunti, ma uno di loro gettò per terra un aculeo di istrice, che si trasformò in un grande bosco folto d'alberi; ma l'orsa riuscì a superarlo e li raggiunse. Questa volta salirono tutti su un albero alto. L’orsa prese un bastone, lo tirò sull'albero e fece cadere quattro fratelli, che morirono. Un uccellino, che volava intorno all'albero, gridò ai bambini: "Colpitela alla testa!" Allora uno dei ragazzi lanciò una freccia alla testa dell'orsa, che cadde a terra morta. Poi scesero dall'albero. Il fratellino prese una freccia, la lanciò dritta nell'aria e, quando cadde, uno dei fratelli morti tornò in vita. Egli ripeté il lancio finché tutti resuscitarono.
Alla fine discussero fra loro: ormai erano soli al mondo; la loro gente era morta e non sapevano dove andare a vivere. Alla fine decisero che avrebbero preferito vivere in cielo. Chiusero gli occhi e iniziarono a salire. Sono rimasti per sempre in cielo, dove brillano di notte. Il fratellino è la Stella Polare. I sei fratelli e la sorellina formano l'Orsa Maggiore. Tutti i fratelli sono disposti a seconda dell'età, cominciando dal più grande....
......Così sono nate le sette stelle dell'Orsa Maggiore....
Fonte
Alla fine discussero fra loro: ormai erano soli al mondo; la loro gente era morta e non sapevano dove andare a vivere. Alla fine decisero che avrebbero preferito vivere in cielo. Chiusero gli occhi e iniziarono a salire. Sono rimasti per sempre in cielo, dove brillano di notte. Il fratellino è la Stella Polare. I sei fratelli e la sorellina formano l'Orsa Maggiore. Tutti i fratelli sono disposti a seconda dell'età, cominciando dal più grande....
......Così sono nate le sette stelle dell'Orsa Maggiore....
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Barbados
Agli inizi del diciannovesimo secolo, un episodio alquanto inquietante e ancora oggi inspiegabile lasciò atterriti gli abitanti dell’isola Barbados. Questa piccola isola, oggi stato indipendente dei Carabi orientali facente parte delCommonwealth, era allora una colonia dell’Impero britannico, ancora oggi il capo dello stato rimane il Sovrano del Regno Unito, la cui economia si fondava sulla manodopera di schiavi di origine africana in vaste piantagioni di proprietà di ricchi padroni britannici.
La cripta
In quel periodo il ricco e potente proprietario terriero Thomas Chase, peraltro odiato dai suoi numerosi schiavi per la sua inflessibilità, acquistò una cripta per la sua famiglia nel cimitero della Chiesa di Cristo. Nel 1807 vi fu sepolta la sua anziana parenteThomazina Goddard e l’anno successivo fu la volta della sua stessa figlioletta Mary Anne Chase. Nel 1812 un’altra figlia diChase, Dorcas, si tolse la vita e fu sepolta nella cripta di famiglia, e fu allora che iniziarono a verificarsi avvenimenti misteriosi. Poco tempo dopo la tumulazione della giovane suicida, la cripta fu riaperta e, con grande orrore di tutta la comunità britannica delle Barbados, si scoprì che le pesanti bare di piombo di Thomazina Goddard e della giovane Mary Anne erano state rivoltate. Benché si pensasse che i colpevoli fossero alcuni schiavi ribelli che odiavano Chase, l’entrata della cripta non presentava alcun segno di manomissione e quindi nessuno poté essere incriminato. Pochi mesi dopo la morte di Dorcas, lo stesso Thomas Chasemorì, ma quando fu calato con la sua bara all’interno della cripta niente era stato toccato al suo interno. Ma quando si dovette riaprire la cripta quattro anni dopo in seguito alla morte di un bambino dei Chase, si ripropose lo stesso inquietante spettacolo dei tempi della morte di Dorcas: tutte le tombe erano state rivoltate; tutte tranne quella della stessa Dorcas, che era stata anche assicurata ad un basamento di legno con delle funi. Del caso s’interessò nel 1819 anche il governatore dell’arcipelago, Lord Comembre, che in seguito all’ennesima morte di uno dei membri della famiglia Chase, ucciso durante una ribellione di schiavi, e di conseguenza all’ennesima macabra scoperta, decise di visitare di persona la cripta insieme al vescovo e a due esperti muratori; questi ultimi appurarono che l’entrata della cripta non era mai stata manomessa e che non vi erano né passaggi segreti rivolti verso l’esterno né falde che potevano far entrare dell’acqua di mare all’interno della cripta durante l’alta marea. Il deciso governatore ordinò comunque che sul pavimento della cripta fosse buttata della sabbia, affinché fossero rivelate delle impronte in caso di un successivo spostamento delle bare, e dispose il suo stesso sigillo all’entrata in modo che a nessuno venisse in mente di profanare ancora la cripta. Da allora si udirono misteriosi rumori provenire dall’interno della tomba, e il governatore fu quindi costretto a tornarci l’anno seguente; benché i suoi sigilli rimanessero intatti, all’interno della cripta tutto era nel più totale disordine, eccetto la solita bara di Dorcas Chase. Poco tempo dopo la famiglia Chase, in preda al terrore, decise di trasferire tutte le esequie dei propri cari in un altro posto dell’isola, e così la cripta fu abbandonata e non accaddero più certi episodi. Nel corso degli anni, molti hanno tentato di giustificare l’episodio secondo un’ottica più o meno razionale. Anzitutto, quando gli abitanti delle Barbados vennero a sapere delle bare rivoltate nel 1812, pensarono inizialmente ad una vendetta degli schiavi africani e perfino quando fu provato che nessuno aveva manomesso l’entrata della cripta molti sostennero che uno sciamano africano avesse praticato della magia voodoo per maledire la famiglia Chase al fine di vendicare l’oppressione dei suoi simili, teoria peraltro accolta anche dagli stessi schiavi. Tutte queste credenze sovrannaturali furono strenuamente combattute dal vescovo e dal governatore, che invece sostenevano che l’acqua di mare entrasse nella cripta durante l’alta marea, ma così non spiegavano il perché la bara di Dorcas Chase non si muovesse. Alcuni studiosi invece sostenevano che il fenomeno si verificava in seguito a terremoti di bassa frequenza; ma con un terremoto in grado di ribaltare bare di piombo anche gli uomini della superficie se ne sarebbero accorti! Molti anni dopo, Arthur Conan Doyle, appassionato di spiritismo, avanzò l’assurda teoria secondo la quale l’odio degli schiavi africani si sarebbe materializzato nella cripta dei Chase e avrebbe ribaltato le tombe dei vecchi padroni. Secondo altri superstiziosi molte notti vi erano vere e proprie lotte tra gli spiriti dei Chase, che non volevano la suicida Dorcas tra loro. Infine, una teoria piuttosto recente indicava poi lo spostamento di voluminosi campi elettromagnetici sotterranei, non bisogna dimenticare che Barbados dista poche miglia dal celeberrimo Triangolo delle Bermuda, colpevole del mistero della cripta. Il mistero della cripta delle Barbados non è ancora stato risolto in maniera scientifica, e ancora oggi pochi ne sono a conoscenza, e quindi i dubbi permangono
Tommaso Cantafio
La cripta
In quel periodo il ricco e potente proprietario terriero Thomas Chase, peraltro odiato dai suoi numerosi schiavi per la sua inflessibilità, acquistò una cripta per la sua famiglia nel cimitero della Chiesa di Cristo. Nel 1807 vi fu sepolta la sua anziana parenteThomazina Goddard e l’anno successivo fu la volta della sua stessa figlioletta Mary Anne Chase. Nel 1812 un’altra figlia diChase, Dorcas, si tolse la vita e fu sepolta nella cripta di famiglia, e fu allora che iniziarono a verificarsi avvenimenti misteriosi. Poco tempo dopo la tumulazione della giovane suicida, la cripta fu riaperta e, con grande orrore di tutta la comunità britannica delle Barbados, si scoprì che le pesanti bare di piombo di Thomazina Goddard e della giovane Mary Anne erano state rivoltate. Benché si pensasse che i colpevoli fossero alcuni schiavi ribelli che odiavano Chase, l’entrata della cripta non presentava alcun segno di manomissione e quindi nessuno poté essere incriminato. Pochi mesi dopo la morte di Dorcas, lo stesso Thomas Chasemorì, ma quando fu calato con la sua bara all’interno della cripta niente era stato toccato al suo interno. Ma quando si dovette riaprire la cripta quattro anni dopo in seguito alla morte di un bambino dei Chase, si ripropose lo stesso inquietante spettacolo dei tempi della morte di Dorcas: tutte le tombe erano state rivoltate; tutte tranne quella della stessa Dorcas, che era stata anche assicurata ad un basamento di legno con delle funi. Del caso s’interessò nel 1819 anche il governatore dell’arcipelago, Lord Comembre, che in seguito all’ennesima morte di uno dei membri della famiglia Chase, ucciso durante una ribellione di schiavi, e di conseguenza all’ennesima macabra scoperta, decise di visitare di persona la cripta insieme al vescovo e a due esperti muratori; questi ultimi appurarono che l’entrata della cripta non era mai stata manomessa e che non vi erano né passaggi segreti rivolti verso l’esterno né falde che potevano far entrare dell’acqua di mare all’interno della cripta durante l’alta marea. Il deciso governatore ordinò comunque che sul pavimento della cripta fosse buttata della sabbia, affinché fossero rivelate delle impronte in caso di un successivo spostamento delle bare, e dispose il suo stesso sigillo all’entrata in modo che a nessuno venisse in mente di profanare ancora la cripta. Da allora si udirono misteriosi rumori provenire dall’interno della tomba, e il governatore fu quindi costretto a tornarci l’anno seguente; benché i suoi sigilli rimanessero intatti, all’interno della cripta tutto era nel più totale disordine, eccetto la solita bara di Dorcas Chase. Poco tempo dopo la famiglia Chase, in preda al terrore, decise di trasferire tutte le esequie dei propri cari in un altro posto dell’isola, e così la cripta fu abbandonata e non accaddero più certi episodi. Nel corso degli anni, molti hanno tentato di giustificare l’episodio secondo un’ottica più o meno razionale. Anzitutto, quando gli abitanti delle Barbados vennero a sapere delle bare rivoltate nel 1812, pensarono inizialmente ad una vendetta degli schiavi africani e perfino quando fu provato che nessuno aveva manomesso l’entrata della cripta molti sostennero che uno sciamano africano avesse praticato della magia voodoo per maledire la famiglia Chase al fine di vendicare l’oppressione dei suoi simili, teoria peraltro accolta anche dagli stessi schiavi. Tutte queste credenze sovrannaturali furono strenuamente combattute dal vescovo e dal governatore, che invece sostenevano che l’acqua di mare entrasse nella cripta durante l’alta marea, ma così non spiegavano il perché la bara di Dorcas Chase non si muovesse. Alcuni studiosi invece sostenevano che il fenomeno si verificava in seguito a terremoti di bassa frequenza; ma con un terremoto in grado di ribaltare bare di piombo anche gli uomini della superficie se ne sarebbero accorti! Molti anni dopo, Arthur Conan Doyle, appassionato di spiritismo, avanzò l’assurda teoria secondo la quale l’odio degli schiavi africani si sarebbe materializzato nella cripta dei Chase e avrebbe ribaltato le tombe dei vecchi padroni. Secondo altri superstiziosi molte notti vi erano vere e proprie lotte tra gli spiriti dei Chase, che non volevano la suicida Dorcas tra loro. Infine, una teoria piuttosto recente indicava poi lo spostamento di voluminosi campi elettromagnetici sotterranei, non bisogna dimenticare che Barbados dista poche miglia dal celeberrimo Triangolo delle Bermuda, colpevole del mistero della cripta. Il mistero della cripta delle Barbados non è ancora stato risolto in maniera scientifica, e ancora oggi pochi ne sono a conoscenza, e quindi i dubbi permangono
Tommaso Cantafio
LA LEGGENDA DEL SOLE
Un tempo il sole appariva solo per un attimo: spuntava ad oriente e subito dopo spariva, senza fare un giro completo. Un fratello e una sorella che vivevano da soli nella foresta, procurandosi il cibo con la caccia e la pesca, temevano che, riscaldando la terra per un tempo troppo breve, le forme di vita sulla terra, raffreddandosi, andassero incontro alla morte. Essi erano degli abilissimi cacciatori. Decisero di costringere il Sole a compier l'intero suo giro. Al mattino la sorella si recò nella foresta e legò tra le cime degli alberi più alti lacci molto lunghi e resistenti. Quando ritornò nel bosco a controllare la sua trappola vide sulla cima di un abete la figura tonda del Sole che, preso al laccio, stava per soffocare, senza riuscire a liberarsi. Avvertì subito il fratello e, insieme, accorsero per impadronirsi del Sole intrappolato. Ma il Sole, temendo per la sua vita, li supplicò promettendo che, se lo avessero lasciato libero, ogni giorno avrebbe prolungato la sua corsa, diffondendo luce e vita sulla Terra. I due lo lasciarono andare e da allora il Sole compie nel cielo il suo intero giro e risplende a lungo nel cielo.
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Leggende e Tradizioni di Sardegna
﴾...Janas, streghe, folletti e spiriti...﴿
In tutta la Sardegna, gli anziani, seduti nel patio della loro casa o accanto al camino nelle lunghe serate invernali, si affrettano con giovanile verbosità a narrare ai più giovani le antiche storie dell'Isola. Leggende popolate di anime vaganti fra il mondo terreno e quello ultraterreno, di orchi assetati di sangue, folletti maliziosi e Janas (fate) o streghe dalle dimensioni di una mela.
Le leggende, tramandate di padre in figlio e scaturite da fatti storici realmente accaduti, come l'arrivo dei vari dominatori provenienti dall'esterno o le guerre e le carestie, si differenziano molto spesso per la variante linguistica in cui sono espresse e per la parlata che ogni territorio o paese si porta appresso, come un'eredita linguistica di cui ogni persona viene omaggiata.
Le aperte vocali del sud, il raddoppiamento delle consonanti, caratteristica del Sulcis-Iglesiente, la pastosa armonia delle vocali del centro dell'Isola, la regolarità ritmica del nord o il tabarchino dell'isola linguistica di Carloforte e Calasetta, sono state il mezzo quotidiano di trasmissione delle antiche storie a noi pervenute.
Nel libro "Leggende e tradizioni di Sardegna" di Gino Buttiglioni, pubblicato nel 1922, sono riportate con dovizia di particolari le storie fantastiche narrate dagli anziani. Alcune di esse non mancheranno di stupire per l'efferatezza, per il salomonico senso della giustizia o, semplicemente, per la moderna sensibilita dalla quale sono animate.
A Tempio si narra la storia di un folletto dai sette berretti al quale, un essere umano scaltro e veloce, sottrasse uno dei berretti nascondendolo dentro una pentola annerita dall'uso sul fuoco del camino. Il folletto, sprezzante creatura dei boschi e delle soffitte, abituato ad avere sempre la meglio, dovette invece rinunciare a riavere il suo tesoro poiché alla sua bianca mano non era permesso di sporcarsi con il nero della fuliggine della pentola. Sempre a Tempio, una leggenda narra la storia di una donna che, avendo redarguito con male parole una ragazza vista mentre lavava i pannolini del proprio bambino nelle acque del fiume, portò per sempre i segni di tale affronto: una grossa macchia nera sul viso. La donna vista al fiume, infatti, non era altri che l'anima di una ragazza morta durante il parto, destinata, secondo la tradizione, ad essere seppellita con sapone, aghi, filo e ditale per il cucito.
Ad Aggius, invece, la leggenda narra di una "Stria", personaggio a metà fra una strega e una predatrice di bambini, il classico Babau o l'inglese boogeyman, la quale, tormentato un neonato fino al pianto, vide recisa la sua mano scambiata, dalla madre del bambino, per un filo penzolante dalla cappa del camino.
E' arrivata fino a noi anche la storia del fortunato mortale di Casteldoria che, avendo sbirciato durante la notte le anime dei morti depositare tre monete d'oro, ottenne così per se e per i propri figli un ricco futuro.
Fitta e interessante appare la congerie di fiabe dedicate alle fate (Janas o Gianas) o alle streghe. Una leggenda, narrata a Gino Buttiglioni da un abitante di Pozzomaggiore, racconta come le fate, esseri luminosi dotati di ali, avessero depositato un tesoro perchè gli uomini più accorti potessero attingervi ricchezze di inestimabile valore. Le Janas, la cui etimologia si avvicina molto alle entita soprannaturali preislamiche degli jann (geni), forse collegate al verbo aramaico dal significato evocativo di "celarsi o nascondersi", sono descritte come esseri minuti e veloci che «quando vedevano una persona che ad esse piaceva, andavano vicino al letto e la svegliavano chiamandola tre volte».
A Ghilarza una leggenda narra invece di alcune Gianas molto belle che «vestivano di rosso con un fazzoletto fiorito».
Ad Aritzo, paese della Barbagia di Belvì, le Gianas sono alte non più di venticinque centimetri e si rifugiano nel bosco mentre a Esterzili, nella Barbagia di Seulo, abitano in grotte sontuose.
Sempre a Esterzili un’antica storia, sorta attorno al tempio megalitico rettangolare de Sa Domu 'e Urxìa, tenta di informare grandi e piccini sull’esistenza di un tesoro, chiamato “Su Scusorxu”, nascosto in contenitori e custoditi dalla maga Urxìa.
A Villacidro a spaventare i bambini sono le streghe di San Sisinnio, vecchie brutte con lunghi capelli e unghie acuminate che succhiavano il sangue e si trasformavano in gatti. A Monserrato, invece, la mitologia locale narra di una bellissima e sfortunata fanciulla che rimase vittima di uno smottamento durante una passeggiata nella miniera d’oro di Genniau, vicino a Sarroch. Chiunque passasse da quelle parti poteva sentire il rumore del telaio che l’anima della poveretta utilizzava in attesa di essere liberata dalla sua prigione d’oro.
Oltre ogni considerazione di tipo linguistico o etnolinguistico, sembra chiaro come la leggenda o la fiaba si facciano oggi portatrici di un doppio valore, quello per l’appunto etnografico, e quello della fantasia tout court, dotata di quella leggerezza che Calvino descrisse come un velo minuto di umori e sensazioni.
Testo di Matteo Tuveri
Testo di Matteo Tuveri
La scomparsa di Atlantide
Leggenda bretone
Moltissimo tempo fa, in un piccolo paese della Bretagna, la giovane Arnaude conduceva un'esistenza felice in compagnia dei suoi genitori. In una notte di tempesta, una nave che passava di lì fu travolta dalle onde del mare e andò a conficcarsi sulle rocce della costa proprio nel punto in cui sorgeva l'abitazione della fanciulla. I suoi genitori videro con preoccupazione arrivare nella loro casa uomini di cui non conoscevano neanche la lingua, ma si tranquillizzarono non appena arrivò il capo dei naufraghi, il sultano d'Atlantide, che chiese loro ospitalità. Il giorno dopo la notizia si diffuse nel villaggio e tutti accorsero in aiuto del sultano e del suo equipaggio.
Sulla spiaggia e nella brughiera regnò per diversi giorni una grande agitazione. Si sentivano ovunque i colpi dei martelli e delle asce, l'eco dei passi degli uomini impegnati a riparare la nave danneggiata. Arnaude offriva ai lavoratori latte fresco, sidro, miele e frutta, che ella stessa raccoglieva dagli alberi. Con mano esperta applicava sulle ferite dei naufraghi unguenti balsamici che ne favorivano la guarigione. Il sultano, affascinato dalla sua dolcezza e dalla bellezza dei suoi profondi occhi azzurri, trascorreva molte ore in compagnia di Arnaude. La giovane lo accompagnava nei luoghi più belli della sua terra. Insieme visitavano i punti più nascosti della foresta, si dissetavano alle più fresche sorgenti. Arnaude insegnò al sultano il linguaggio degli uccelli che popolano ancora oggi le coste della Bretagna, gli raccontò le leggende di quei luoghi. Il sovrano si innamorò perdutamente di lei e volle sposarla. Nella radura dei dolmen un vecchio druido benedisse la loro unione, accompagnata da una grande festa che durò sette lunghi giorni. Durante il ricevimento, la felicità dei giovani fu però offuscata quando il mago del villaggio lesse nelle stelle dei cattivi auspici. Ma Arnaude e il suo sposo erano troppo innamorati e dimenticarono ben presto l'oscura profezia. Non appena la nave fu riparata, i due giovani sposi partirono felici per la terra di Atlantide. Il viaggio fu lungo ma i venti del mare benevoli gonfiavano le vele permettendo una navigazione regolare.
Finalmente un mattino, dall'alto del pennone, Arnaude vide la sua nuova patria: una città tutta bianca che spiccava sull'intenso azzurro del mare e sulla quale dominava la meravigliosa reggia del sultano. I due giovani attraversarono le strade fra le acclamazioni della folla che salutava festosamente il rientro del sovrano.
Iniziò per Arnaude una nuova vita. Il suo sposo faceva di tutto per renderla felice; la giovane viveva come in una favola, passando di meraviglia in meraviglia. Ma l'incanto stava per finire. Era una notte calma, le stelle brillavano lucenti nel cielo; i due sposi passeggiavano lungo la spiaggia, quando una voce ruppe il silenzio ricordando al sultano d'aver violato la legge divina. Egli avrebbe dovuto sposare una dea di Atlantide ma, venendo meno a quel patto, aveva attirato su di sé e sul suo popolo la maledizione degli dei.
Il giovane sultano pregò e supplicò la voce invisibile di risparmiare il suo popolo e la sua sposa: egli era il colpevole e perciò egli solo era meritevole di castigo. Ma gli dei non s'impietosirono. In quello stesso momento, sotto gli occhi spaventati di Arnaude, il suolo si aprì e Atlantide, inghiottita dalle viscere della terra, fu trascinata verso le più grandi profondità insieme al suo sovrano e a tutti gli abitanti che vennero trasformati in conchiglie. La giovane donna, trasportata da un vento impetuoso, si ritrovò di lì a poco sulla spiaggia del suo villaggio. Gli dei le avevano concesso di sopravvivere affinché la leggenda di Atlantide non andasse perduta. La fanciulla ne scrisse la storia e la rinchiuse in uno scrigno insieme a una cartina di Atlantide, permettendo così alle successive generazioni di venirne a conoscenza.
Si racconta che ogni settantacinque anni il favoloso continente riemerga dalle acque e sia visibile per la durata di un'intera notte.
Fonte
Sulla spiaggia e nella brughiera regnò per diversi giorni una grande agitazione. Si sentivano ovunque i colpi dei martelli e delle asce, l'eco dei passi degli uomini impegnati a riparare la nave danneggiata. Arnaude offriva ai lavoratori latte fresco, sidro, miele e frutta, che ella stessa raccoglieva dagli alberi. Con mano esperta applicava sulle ferite dei naufraghi unguenti balsamici che ne favorivano la guarigione. Il sultano, affascinato dalla sua dolcezza e dalla bellezza dei suoi profondi occhi azzurri, trascorreva molte ore in compagnia di Arnaude. La giovane lo accompagnava nei luoghi più belli della sua terra. Insieme visitavano i punti più nascosti della foresta, si dissetavano alle più fresche sorgenti. Arnaude insegnò al sultano il linguaggio degli uccelli che popolano ancora oggi le coste della Bretagna, gli raccontò le leggende di quei luoghi. Il sovrano si innamorò perdutamente di lei e volle sposarla. Nella radura dei dolmen un vecchio druido benedisse la loro unione, accompagnata da una grande festa che durò sette lunghi giorni. Durante il ricevimento, la felicità dei giovani fu però offuscata quando il mago del villaggio lesse nelle stelle dei cattivi auspici. Ma Arnaude e il suo sposo erano troppo innamorati e dimenticarono ben presto l'oscura profezia. Non appena la nave fu riparata, i due giovani sposi partirono felici per la terra di Atlantide. Il viaggio fu lungo ma i venti del mare benevoli gonfiavano le vele permettendo una navigazione regolare.
Finalmente un mattino, dall'alto del pennone, Arnaude vide la sua nuova patria: una città tutta bianca che spiccava sull'intenso azzurro del mare e sulla quale dominava la meravigliosa reggia del sultano. I due giovani attraversarono le strade fra le acclamazioni della folla che salutava festosamente il rientro del sovrano.
Iniziò per Arnaude una nuova vita. Il suo sposo faceva di tutto per renderla felice; la giovane viveva come in una favola, passando di meraviglia in meraviglia. Ma l'incanto stava per finire. Era una notte calma, le stelle brillavano lucenti nel cielo; i due sposi passeggiavano lungo la spiaggia, quando una voce ruppe il silenzio ricordando al sultano d'aver violato la legge divina. Egli avrebbe dovuto sposare una dea di Atlantide ma, venendo meno a quel patto, aveva attirato su di sé e sul suo popolo la maledizione degli dei.
Il giovane sultano pregò e supplicò la voce invisibile di risparmiare il suo popolo e la sua sposa: egli era il colpevole e perciò egli solo era meritevole di castigo. Ma gli dei non s'impietosirono. In quello stesso momento, sotto gli occhi spaventati di Arnaude, il suolo si aprì e Atlantide, inghiottita dalle viscere della terra, fu trascinata verso le più grandi profondità insieme al suo sovrano e a tutti gli abitanti che vennero trasformati in conchiglie. La giovane donna, trasportata da un vento impetuoso, si ritrovò di lì a poco sulla spiaggia del suo villaggio. Gli dei le avevano concesso di sopravvivere affinché la leggenda di Atlantide non andasse perduta. La fanciulla ne scrisse la storia e la rinchiuse in uno scrigno insieme a una cartina di Atlantide, permettendo così alle successive generazioni di venirne a conoscenza.
Si racconta che ogni settantacinque anni il favoloso continente riemerga dalle acque e sia visibile per la durata di un'intera notte.
Fonte
La leggenda della Passiflora
Nei giorni lontani, quando il mondo era tutto nuovo, la primavera fece balzare dalle tenebre verso la luce tutte le piante della terra; e tutte fiorirono come per incanto. Solo una pianta non udì il richiamo della primavera; e quando finalmente riuscì a rompere la dura zolla, la primavera era già lontana...
-Fà che anch'io fiorisca, o Signore!- Pregò la piantina.
-Tu pure fiorirai - rispose il Signore.
- Quando? - chiese con ansia la piccola pianta senza nome.
-Un giorno..- e l'occhio di Dio si velò di tristezza. Era ormai passato molto tempo. La primavera anche quel anno era venuta; e al suo tocco le piante del Golgota avevano aperto i loro fiori... tutte fuorché la piantina senza nome.
Il vento portò l'eco di urla sguaiate, di gemiti, di pianti...
Un uomo avanzava fra la folla urlante, curvo sotto la croce. Aveva il volto sfigurato dal dolore e dal sangue.
- Vorrei piangere anch'io come piangono gli uomini.- disse la piantina con un fremito.
Gesù in quel momento le passava accanto, e una lacrima, mista a sangue, cadde sulla piantina pietosa.
Subito nacque un fiore strano, che portava nella corolla gli strumenti della passione :
una corona, un martello, dei chiodi.... la passiflora, il fiore della passione.
Fonte
-Fà che anch'io fiorisca, o Signore!- Pregò la piantina.
-Tu pure fiorirai - rispose il Signore.
- Quando? - chiese con ansia la piccola pianta senza nome.
-Un giorno..- e l'occhio di Dio si velò di tristezza. Era ormai passato molto tempo. La primavera anche quel anno era venuta; e al suo tocco le piante del Golgota avevano aperto i loro fiori... tutte fuorché la piantina senza nome.
Il vento portò l'eco di urla sguaiate, di gemiti, di pianti...
Un uomo avanzava fra la folla urlante, curvo sotto la croce. Aveva il volto sfigurato dal dolore e dal sangue.
- Vorrei piangere anch'io come piangono gli uomini.- disse la piantina con un fremito.
Gesù in quel momento le passava accanto, e una lacrima, mista a sangue, cadde sulla piantina pietosa.
Subito nacque un fiore strano, che portava nella corolla gli strumenti della passione :
una corona, un martello, dei chiodi.... la passiflora, il fiore della passione.
Fonte
Il Ponte del Diavolo
Già dalla sua denominazione il “Ponte del diavolo” rivela le sue origini infernali, supportate però da due circostanze: la prima relativa al fatto che, nonostante le numerose ricerche in proposito, non si conosce la data di origine e la seconda è dovuta alla sua incredibile solidità, avendo resistito per molti secoli alle impetuose piene del fiume.
La leggenda narra che in un borgo sulle rive del Serchio, ad un capomastro bravo e apprezzato fu affidato il compito di costruire un ponte tra i due borghi. Passarono i giorni e siccome il lavoro procedeva lentamente, fu preso dallo sconforto e dalla disperazione per il disonore che sarebbe derivato nell'ultimare il lavoro fuori dal tempo pattuito. Gli sforzi effettuati non contrastavano il veloce passare del tempo e una sera, quando scoraggiato si era fermato a vedere il suo lavoro, apparve un rispettabile uomo d'affari sotto le cui sembianze si nascondeva il diavolo. Quest'ultimo si avvicinò al capomastro promettendogli di terminare il ponte in una sola notte. Egli, dopo aver ascoltato un po' sbigottito le parole del diavolo, accettò la proposta. In cambio di questo favore costui voleva l'anima della prima persona che avrebbe attraversato il nuovo ponte. Il giorno successivo gli abitanti di Borgo a Mozzano si svegliarono e trovarono il ponte terminato. L'artigiano ricevendo i complimenti delle persone, raccomandò loro di non oltrepassare il ponte prima del calar del sole e si recò a Lucca per consultarsi con il Vescovo. Egli lo tranquillizzò e gli suggerì di far sì che passasse un maiale per primo: il Diavolo arrabbiato per essere stato giocato si buttò nelle acque del Serchio e da allora non se ne hanno più notizie.
Scritti dalla garfagnana
La leggenda narra che in un borgo sulle rive del Serchio, ad un capomastro bravo e apprezzato fu affidato il compito di costruire un ponte tra i due borghi. Passarono i giorni e siccome il lavoro procedeva lentamente, fu preso dallo sconforto e dalla disperazione per il disonore che sarebbe derivato nell'ultimare il lavoro fuori dal tempo pattuito. Gli sforzi effettuati non contrastavano il veloce passare del tempo e una sera, quando scoraggiato si era fermato a vedere il suo lavoro, apparve un rispettabile uomo d'affari sotto le cui sembianze si nascondeva il diavolo. Quest'ultimo si avvicinò al capomastro promettendogli di terminare il ponte in una sola notte. Egli, dopo aver ascoltato un po' sbigottito le parole del diavolo, accettò la proposta. In cambio di questo favore costui voleva l'anima della prima persona che avrebbe attraversato il nuovo ponte. Il giorno successivo gli abitanti di Borgo a Mozzano si svegliarono e trovarono il ponte terminato. L'artigiano ricevendo i complimenti delle persone, raccomandò loro di non oltrepassare il ponte prima del calar del sole e si recò a Lucca per consultarsi con il Vescovo. Egli lo tranquillizzò e gli suggerì di far sì che passasse un maiale per primo: il Diavolo arrabbiato per essere stato giocato si buttò nelle acque del Serchio e da allora non se ne hanno più notizie.
Scritti dalla garfagnana
I custodi della Tradizione e il mito di Agarttha
Secondo molte leggende dei Popoli naturali di tutto il pianeta, gli eredi diretti della Tradizione delle mitiche civiltà perdute non sarebbero scomparsi insieme ad esse, ma si sarebbero nascosti in posti segreti, nelle viscere della Terra o nel cuore delle montagne.
Le leggende degli indiani Hopi parlano dei misteriosi Katchina, esseri ancestrali da cui gli Hopi fanno dipendere la sopravvivenza della loro tradizione, provenienti dal cuore delle montagne di San Francisco Peaks dove tuttora dimorano.
Secondo la tradizione Apache, la loro montagna sacra Mount Graham (nome Apache “Dzill Nchaa Si'An”) è la casa del messaggero spirituale del passato, Ga’an. Ga’an secondo gli Apache dimora nel monte Graham, ed è conosciuto oggi come il danzatore spirituale della montagna, da cui il Popolo Apache, sin dai tempi degli Antenati e fino alla generazione moderna, dipende per le cerimonie e per la sopravvivenza della loro cultura.
Anche le leggende dei Nativi europei fanno riferimento a misteriosi Antichi che dimorerebbero ancora oggi nelle montagne.
Nella mitologia irlandese si parla dei mitici Tuatha de Danann, gli esseri misteriosi venuti dal cielo avvolti dalle nebbie, che donarono la Conoscenza ai primi Re d'Irlanda, gli Ard-Rì. Secondo le leggende, un membro di questa mitica tribù si rifugiò nel cuore segreto di un tumulus in Irlanda. I miti dei Celti inoltre parlano della Montagna bianca, che non può essere mai sommersa da nessun diluvio distruttore, come di un luogo inaccessibile in cui si celerebbero i depositari di una antica conoscenza.
Nella cultura dei megaliti, gli imponenti templi di pietra di cui non si conoscono le origini e i cui reperti si trovano su tutti i continenti, esiste il concetto di Tumulus, una costruzione a forma di collina circolare di notevoli dimensioni, alta mediamente sui 20-30 metri, denominata anche come Cairn, che ospita al suo interno una camera ricavata da una struttura a dolmen.
Questa camera era utilizzata dagli antichi druidi per i loro riti iniziatici e di culto e costituiva la dimensione più segreta del tumulus, rappresentando la riproduzione dell’archetipo iniziatico della caverna, in cui veniva attivato il contatto intimo con la natura simbolica di Madre Terra.
Ferdynand Ossendowski narrò nel libro “Bestie, uomini e dèi” il suo contatto con il misterioso regno di “Agarthi”
In questa camera erano riposti i più importanti oggetti di culto. Essa rappresentava lo spazio mistico in cui gli iniziati si ponevano in cerchio per condurre la loro meditazione collettiva orientata ad atti creativi di varia natura.
Di questa pratica druidica rimasero nel tempo le credenze tramandate attraverso le leggende che narravano la presenza nel cuore di particolari montagne - come il Roc Maol, il Musiné e la grande pietra della Rocca di Cavour, in Piemonte - di esseri particolari e misteriosi che custodirebbero tesori di conoscenza e spiritualità.
Leggende della Valle di Susa, in Piemonte, narrano della città ciclopica di Rama, una mitica città scomparsa a causa di una catastrofe, i cui abitanti non scomparvero tutti, ma una parte di loro si salvò e costruì una città segreta nelle viscere rocciose del Roc Maol, il monte Rocciamelone, dove i sopravvissuti si rifugiarono mantenendo nascosta la loro esistenza. Altre leggende asseriscono che all'interno del Roc Maol vi sarebbe un mago benevolo che veglia su un immenso tesoro fatto di monili preziosi e di strumenti magici.
Probabilmente queste leggende vogliono significare che i Celti e altri Popoli naturali consideravano che in certi menhir e nelle montagne sacre ci fosse la presenza segreta degli Dei che potevano essere risvegliati per accedere al loro aiuto e alla loro conoscenza.
In Asia esiste il mito di Agarttha, che ha una assonanza piuttosto simile al mito nordico di Asgard degli Asi. Agarttha rappresenta la cittadella costruita dagli antichi iniziatori dell’umanità dopo la scomparsa di una grande civiltà che avrebbe dato inizio a un periodo di barbarie sulla terra. La cittadella sarebbe stata costruita dentro una bianca e inaccessibile montagna e i loro costruttori, dopo aver lasciato la Terra all’umanità, si sarebbero ritirati nelle sue viscere per fungere da custodi dell’antica Tradizione.
Gli stessi antichi Egizi, secondo le interpretazioni del loro esoterismo, avrebbero costruito le piramidi a modello della montagna in cui sarebbe stata celata la cittadella di Agarttha.
Numerose tradizioni, sparse su tutto il pianeta, sostengono con molta chiarezza l'esistenza di una o più misteriose cittadelle sotterranee, celate al mondo, sedi di una comunità di Saggi (“Superiori Sconosciuti”) che influirebbero invisibilmente sul cammino dell'umanità; molto significative, a questo proposito, sono ad esempio alcune leggende comprese nel ciclo del Graal e quelle relative al “Prete Gianni”, elaborate nell'Europa medievale.
Il nome di Agarttha, che designa il principale di questi centri, nascosto nella zona tibetana, compare già, oltre che in racconti indo-tibetani, in alcune antiche leggende del Nord Europa, relative all'abitazione di Odino, posta a oriente, tra i monti, e chiamata Asgard.
Una statuetta Katchina, raffigurante i misteriosi custodi degli Hopi che dimorerebbero nelle montagne di San Francisco Peaks
L'argomento venne a conoscenza del grande pubblico quando un viaggiatore del XX secolo, Ferdynand Ossendowski, narrò nel libro “Bestie, uomini e dèi” il suo contatto con il misterioso regno di “Agarthi” e con il “Re del Mondo” che in quel regno avrebbe la sua sede.
Sulla sua strada attraverso l’immensità della Mongolia nel 1921, lo scrittore e profugo polacco Ferdynand Ossendowski fu testimone di alcuni strani comportamenti da parte delle sue guide mongole. Fermarono i loro cammelli in mezzo al nulla e cominciarono a pregare fervidamente, mentre uno strano silenzio cadde sugli animali e tutto intorno. I mongoli successivamente spiegarono che questo rituale accadeva ogni volta che “il Re del Mondo prega nel suo palazzo sotterraneo e cerca il destino di tutti i popoli della Terra.” Da diversi lama, Ossendowski apprese che questo Re del Mondo era il sovrano di un misterioso, ma presumibilmente molto reale, regno di “Agharti”. Mito di cui ha parlato anche il suo contemporaneo René Guénon, esoterista francese dedito alla Teosofia, nel suo libro “Il Re del mondo”.
Da quel momento, com'è naturale, si cominciarono a elaborare le più strane teorie su questo misterioso centro.
Alcuni occultisti, accettata in blocco l'idea di una comunità che guida le azioni degli uomini, per giustificare la presenza nel mondo del “bene” e del “male”, hanno dovuto contrapporre ad Agarttha, sede di “iniziati buoni”, una fantomatica cittadella, Shanballah, sede di “iniziati malvagi”, che agiscono a danno dell'umanità.
Secondo alcune tradizioni invece Agarttha e Shanballah sarebbero una sola e identica entità, al punto che nei Visnhupurana si afferma che la stirpe che restaurerà l'Età dell'Oro dopo il Kali-Yuga scaturirà proprio da Shanballah. I due nomi coprirebbero in realtà i due aspetti con cui si manifestano le funzioni di questo centro: quello conservativo ed ordinatore (Agarttha) e quello trasformatore (Shanballah), così come Vishnu e Shiva rappresentano i due aspetti di Brahma.
Tornando alla natura di Agarttha, alcune interpretazioni esoteriche identificano con questo nome un nucleo di persone, più o meno numeroso, che in tempi non troppo remoti si assunse l'incarico di mantenere inalterata l’antica Tradizione attraverso il tempo, compito che rese necessario l'isolamento da qualsiasi contingenza storica contaminante. In questo modo, questo nucleo di Saggi, pur non intervenendo mai direttamente, opererebbe nella società per l'evoluzione e il progresso.
Agarttha si collocherebbe all'interno dell'Everest. Questo mito rappresenta il punto in comune tra la mitologia orientale e quella occidentale.
Il mito dei Superiori Sconosciuti nascosti all'interno della Terra è presente in maniera molto esplicita anche presso le tradizioni dei Nativi australiani che parlano del “Tempo del Sogno”.
Secondo le leggende australiane, Il Tempo del Sogno finì quando i Signori lasciarono la Terra. Una parte di loro ascese al cielo e una parte si nascose sotto terra.
La Rocca di Cavour, in Piemonte, è una formazione collinare che rappresenta un elemento insolito rispetto al paesaggio circostante. Secondo le leggende, la collina sarebbe un tumulus abitato da misteriosi custodi della Tradizione
Presso i Nativi australiani esiste ancora oggi la leggenda di una tribù segreta che è la capostipite di tutte le altre tribù, nascosta sotto la Terra per custodire gli antichi segreti del popolo degli australiani e garantire il loro ritorno alla libertà.
Questa tribù si nasconderebbe in città sotterranee i cui ingressi sono mantenuti segreti. I suoi membri parlano una lingua segreta per impedire che la loro esistenza venga scoperta dagli invasori. Sono retti da un matriarcato che ha aperto le sue conoscenze anche agli uomini.
Secondo questa leggenda, essi praticano riti legati al mito del serpente piumato e ospitano i sopravvissuti dei sauri rimasti ancora sulla Terra.
Anche le tradizioni del Piemonte narrano di esseri misteriosi, custodi di conoscenze antiche, che si nascondono all'interno di monti particolari. La leggenda del Dragone d'Oro del Musiné parla infatti di una montagna abitata da un drago. Questa leggenda viene raccontata dai valligiani come un racconto reale ed è colma di simbolismi che sono legati ancora una volta al mito del Graal.
Secondo la leggenda, in una grotta all'interno del Monte Musiné, nella Valle di Susa, viveva un mago che si era nascosto per compiere indisturbato incantesimi e fabbricare filtri magici. L'ingresso era sorvegliato da due giganteschi grifoni.
Un signorotto del luogo, un certo Gualtiero, cercò di penetrarvi con degli amici armati. Quando fu entrato, il gruppo giunse in una grande sala illuminata dove sembrava che la luce venisse emanata dalle pareti stesse.
Nel mezzo della sala accovacciato al suolo, si trovava un enorme drago giallo che li fissava con due occhi fiammeggianti.Tutti si misero sulla difensiva, ma constatarono che il drago era d'oro e gli occhi due grossi rubini.
Su una parete spiccava questa scritta: “Sappiate o audaci che il Dragone d'Oro custodisce il tesoro. Guai a chi ardirà toccarlo, la sfortuna lo perseguiterà.” Il gruppo trovò una piccola cripta dove era posto uno smeraldo grande quanto il pugno di una mano d’adulto, irradiante una luce verde di estrema limpidezza che illuminava tutta la cripta.
Il gruppo trovò infine il mago seduto davanti a una fontana d'acqua che sgorgava dalla roccia. Egli invitò gli intrusi a guardare nell'acqua del laghetto che subito divenne lattea e mostrò delle immagini che rappresentavano una profezia sulla Valle di Susa. Non si sa quale fosse la profezia né come si concluse la storia, che ancora oggi viene raccontata con un po’ di inquietudine. Occorre aggiungere che presso gli antichi Celti che abitavano la Valle di Susa, l’intera estensione della valle che portava dall’oltralpe alla pianura padana era interpretata come il “Sentiero del drago”, un percorso magico e mistico che era inteso non solo come via di comunicazione ma anche come sentiero iniziatico.
Fonti varie
Fonti varie
Miti della creazione cosmogonici egizi
Nella mitologia egizia sono riportati tre miti cosmogonici distinti, corrispondenti a tre diversi culti dei maggiori centri sacerdotali.
Nella dottrina di Eliopoli si narra che in principio vi fosse Nun, il caos incontrollato, elemento liquido e turbolento, il non creato. Dal Nun emerse una collinetta dalla quale nacque Atum. Questi diede vita a Shu (l'aria) e Tefnut (l'umido), i quali a loro volta generarono Geb (la terra) e Nut (il cielo). Il mito racconta che questi ultimi se ne stavano sempre uniti e impedivano alla vita di germogliare, così Atum ordinò al loro padre, Shu, di dividerli. Con le mani Shu spinse Nut verso l'alto facendole formare la volta celeste e con i piedi calpestò Geb tenendolo sdraiato. In questo modo l'aria separò il cielo dalla terra. Geb e Nut, a loro volta, generarono quattro figli: Osiride, Iside, Nefti e Seth.
In epoca tarda Atum fu identificato con Ra, nella forma di Atum-Ra, simboleggiante il sole al tramonto.
Secondo la dottrina di Menfi, la creazione del mondo sarebbe opera di Ptah, che con il cuore, sede del pensiero, e con la lingua, la parola datrice di vita, avrebbe generato otto emanazioni di sé.
Da alcune fonti viene considerato il solo creatore non creato dell’intero universo, ed è anche ritenuto, a volte, una personificazione della materia primordiale (Ta-tenen).
L’importanza del ruolo di Ptah nella mitologia egiziana è testimoniata dalla etimologia del termine "Egitto", una corruzione greca della frase "Het-Ka-Ptah", o "Casa dello Spirito di Ptah".
La cosmogonia di Tebe, narra di una collina di fango che sarebbe emersa dalle acque, originando otto divinità, quattro maschili con testa di rana e quattro femminili con testa di serpente. Queste otto divinità (Ogdoade) erano:
Esse avevano come capostipite il dio creatore Thot, dio della luna, sapienza, scrittura, magia, misura del tempo, matematica e geometria.
Fonte
Nella dottrina di Eliopoli si narra che in principio vi fosse Nun, il caos incontrollato, elemento liquido e turbolento, il non creato. Dal Nun emerse una collinetta dalla quale nacque Atum. Questi diede vita a Shu (l'aria) e Tefnut (l'umido), i quali a loro volta generarono Geb (la terra) e Nut (il cielo). Il mito racconta che questi ultimi se ne stavano sempre uniti e impedivano alla vita di germogliare, così Atum ordinò al loro padre, Shu, di dividerli. Con le mani Shu spinse Nut verso l'alto facendole formare la volta celeste e con i piedi calpestò Geb tenendolo sdraiato. In questo modo l'aria separò il cielo dalla terra. Geb e Nut, a loro volta, generarono quattro figli: Osiride, Iside, Nefti e Seth.
In epoca tarda Atum fu identificato con Ra, nella forma di Atum-Ra, simboleggiante il sole al tramonto.
Secondo la dottrina di Menfi, la creazione del mondo sarebbe opera di Ptah, che con il cuore, sede del pensiero, e con la lingua, la parola datrice di vita, avrebbe generato otto emanazioni di sé.
Da alcune fonti viene considerato il solo creatore non creato dell’intero universo, ed è anche ritenuto, a volte, una personificazione della materia primordiale (Ta-tenen).
L’importanza del ruolo di Ptah nella mitologia egiziana è testimoniata dalla etimologia del termine "Egitto", una corruzione greca della frase "Het-Ka-Ptah", o "Casa dello Spirito di Ptah".
La cosmogonia di Tebe, narra di una collina di fango che sarebbe emersa dalle acque, originando otto divinità, quattro maschili con testa di rana e quattro femminili con testa di serpente. Queste otto divinità (Ogdoade) erano:
- Nun e Naunet, il caos;
- Kuk e Kauket, l'oscurità;
- Heh ed Hehet, l'illimitatezza;
- Amon ed Amonet, l'invisibilità.
Esse avevano come capostipite il dio creatore Thot, dio della luna, sapienza, scrittura, magia, misura del tempo, matematica e geometria.
Fonte
Miti Pre-Colombiani, I Maya
La civiltà Maya, sviluppatasi nella penisola dello Yucatan, in Guatemala, in Honduras e nelle regioni limitrofe fiorì essenzialmente tra il quarto e il quindicesimo secolo d.C. Nel pantheon maya vi erano tre categorie di esseri divini: gli dei del cielo, gli dei della terra, gli dei del sottosuolo. Per i Maya l‟essere supremo era Hunabku (Hunab = uno; Ku = dio) creatore del mondo e degli dei. Fra le divinità maggiori vi era Itzanna, dio del sole, del cielo, dell‟agricoltura, del calendario, della medicina e della scrittura. Ixchel era la sua compagna, dea della terra, della fertilità e del parto e della luna. Si diceva che Ixcel in origine fosse una divinità più splendente, ma non essendo stata sposa fedele a Itzanna, questi l‟avesse accecata. Inoltre i loro continui bisticci sono l‟origine delle eclissi di sole e di luna. Molto importante erano Kukulcan o Kukumatz, il serpente piumato verde, protettore della potentissima casta sacerdotale, e il dio Huracan – da cui deriva la parola “uragano”- che pronunciando la parola “terra” la fecero apparire e la popolarono. I Maya credevano che ci fossero nove sfere nel cielo, il Mondo Superiore, e nove sfere negli abissi, il Mondo inferiore; la prima sfera celeste, la più alta, era abitata dalla coppia genitrice. Secondo la tradizione, fu plasmata prima la terra, una superficie piatta, circolare, percorsa dall‟asse del sole. I punti
cardinali erano quattro, distinti da un colore proprio a ciascuno: il nord bianco, il sud giallo, l‟est rosso e l‟ovest nero. Nei quattro punti cardinali si trovavano i bacabs, le quattro divinità che sostenevano il cielo sulle spalle; qui si trovavano pure i quattro alberi di ceiba, piante sacre associate a quattro uccelli dal piumaggio simile al colore del punto cardinale occupato da ciascuno di essi. Al centro del mondo c‟era una grande ceiba che congiungeva, con i sui rami e le sue radici, il mondo sotterraneo a quello superiore. La superficie della terra era vista come il dorso di un enorme rettile a due teste con il corpo ornato di simboli astronomici. Si pensava anche che la terra fosse sostenuta da quattro rettili che con i loro movimenti davano luogo a cataclismi e terremoti. Dopo la terra fu plasmato l‟uomo, prima con l‟argilla ma il tentativo non riuscì perché le creature si rivelarono prive d‟intelligenza e di sentimenti, incapaci di parlare ed onorare gli dei. Le divinità, deluse, le sciolsero nell' acqua. Provarono poi a formarli con il legno, ma anche questo tentativo fallì perché erano poco intelligenti, privi di sentimento e ignoravano i loro creatori: di questi alcuni furono annegati, altri furono dilaniati da tutti gli animali rivoltatisi contro di loro o costretti a fuggire sugli alberi dove diedero origine alle scimmie. Infine con una pannocchia di mais furono formati quattro uomini che vennero troppo perfetti, con una vista che gli consentiva di vedere sino all‟infinito e un pensiero che riusciva a cogliere ed abbracciare tutto. Preoccupati per averli creati troppo simili a loro, gli dei attutirono i loro sensi e diedero loro delle spose ed essi resero omaggio agli dei, che lo gradirono e li lasciarono sopravvivere. Ogni atto creatore sia del mondo che dell‟uomo si compie di notte e deve terminare prima dell‟alba. Dopo la conquista spagnola gli scribi maya redassero due testi molto importanti per comprendere il loro pensiero ed i loro rituali: il Popol Vuh, di area guatemalteca, detto “la Bibbia dei Maya degli altipiani”, ed il Chilam Balam, dell‟area dello Yucatan. Entrambe le opere parlano dei miti relativi alla creazione della natura e dell‟uomo.
Fonte (Miti Pre-Colombiani)
cardinali erano quattro, distinti da un colore proprio a ciascuno: il nord bianco, il sud giallo, l‟est rosso e l‟ovest nero. Nei quattro punti cardinali si trovavano i bacabs, le quattro divinità che sostenevano il cielo sulle spalle; qui si trovavano pure i quattro alberi di ceiba, piante sacre associate a quattro uccelli dal piumaggio simile al colore del punto cardinale occupato da ciascuno di essi. Al centro del mondo c‟era una grande ceiba che congiungeva, con i sui rami e le sue radici, il mondo sotterraneo a quello superiore. La superficie della terra era vista come il dorso di un enorme rettile a due teste con il corpo ornato di simboli astronomici. Si pensava anche che la terra fosse sostenuta da quattro rettili che con i loro movimenti davano luogo a cataclismi e terremoti. Dopo la terra fu plasmato l‟uomo, prima con l‟argilla ma il tentativo non riuscì perché le creature si rivelarono prive d‟intelligenza e di sentimenti, incapaci di parlare ed onorare gli dei. Le divinità, deluse, le sciolsero nell' acqua. Provarono poi a formarli con il legno, ma anche questo tentativo fallì perché erano poco intelligenti, privi di sentimento e ignoravano i loro creatori: di questi alcuni furono annegati, altri furono dilaniati da tutti gli animali rivoltatisi contro di loro o costretti a fuggire sugli alberi dove diedero origine alle scimmie. Infine con una pannocchia di mais furono formati quattro uomini che vennero troppo perfetti, con una vista che gli consentiva di vedere sino all‟infinito e un pensiero che riusciva a cogliere ed abbracciare tutto. Preoccupati per averli creati troppo simili a loro, gli dei attutirono i loro sensi e diedero loro delle spose ed essi resero omaggio agli dei, che lo gradirono e li lasciarono sopravvivere. Ogni atto creatore sia del mondo che dell‟uomo si compie di notte e deve terminare prima dell‟alba. Dopo la conquista spagnola gli scribi maya redassero due testi molto importanti per comprendere il loro pensiero ed i loro rituali: il Popol Vuh, di area guatemalteca, detto “la Bibbia dei Maya degli altipiani”, ed il Chilam Balam, dell‟area dello Yucatan. Entrambe le opere parlano dei miti relativi alla creazione della natura e dell‟uomo.
Fonte (Miti Pre-Colombiani)
Il mito del diluvio universale in varie culture
Mesopotamia
Il racconto biblico dell'Arca di Noè presenta delle somiglianze con il mito sumero dell'epopea di Gilgamesh, che narra di un antico re di nome Utnapishtim che fu invitato dal suo dio personale a costruire un battello, nel quale avrebbe potuto salvarsi dal diluvio inviato dal consesso degli dei. La più antica versione dell'epopea di Atrahasis è stata datata all'epoca del regno del pronipote di Hammurabi, Ammisaduqa (tra il 1646 a.C. e il 1626 a.C.), ed ha continuato ad essere riproposta fino al primo millennio a.C. La leggenda di Ziusudra, a giudicare dalla scrittura, potrebbe risalire alla fine del XVI secolo a.C., mentre la storia di Utnapishtim, che ci è nota grazie a manoscritti del primo millennio a.C., è probabilmente una variazione dell'epopea di Athrasis. Le varie leggende mesopotamiche sul Diluvio hanno conosciuto una notevole longevità, tanto che alcune di esse sono state trasmesse fino al III secolo a.C.
Gli archeologi hanno trovato un considerevole numero di testi originali in Lingua sumera, accadica e assira, redatte in caratteri cuneiformi. La ricerca di nuove tavolette prosegue, come la traduzione di quelle già scoperte. Secondo un'ipotesi scientifica, l'evidente parentela tra la tradizione mesopotamica e quella biblica potrebbe avere come radice comune la rapida salita delle acque nel bacino del Mar Nero, oltre 7 millenni fa, a causa della rottura della diga naturale costituita dallo stretto del Bosforo. L'epopea di Athrasis, scritta in accadico (la lingua dell'antica Babilonia), racconta come il dio Enki ingiunge all'eroe Shuruppak di smantellare la propria casa, fatta di canne, e di costruire un battello per sfuggire al diluvio che il dio Enlil, infastidito dal rumore delle città, intende mandare per sradicare l'umanità.
Il battello deve disporre di un tetto "simile a quello di Apsû" (l'oceano sotterraneo di acqua dolce di cui Enki è signore), di un ponte inferiore e di uno superiore, e deve essere impermeabilizzato con bitume Athrasis sale a bordo con la sua famiglia e i suoi animali, e ne sigilla l'entrata. La tempesta e il diluvio cominciano, "i cadaveri riempiono il fiume come libellule", e anche gli dei si spaventano. Dopo 7 giorni il diluvio cessa, e Athrasis offre dei sacrifici. Enlil è furioso, ma Enki lo sfida apertamente, dichiarando di essersi impegnato alla preservazione della vita. Le due divinità si accordano infine su misure diverse, per regolare la popolazione umana. Della storia esiste anche un'altra versione assira più tarda. La leggenda di Ziusudra, scritta in sumero, è stata ritrovata nei frammenti di una tavoletta di Eridu. Essa narra di come lo stesso dio Enki avvertì Ziusudra, (« egli ha visto la vita », in riferimento al dono di immortalità che gli fu concesso dagli dei), re di Shuruppak, della decisione degli dei di distruggere l'umanità ad opera di un diluvio, il passaggio con la spiegazione di questa decisione è andato perduto. Enki incarica allora Ziusudra di costruire una grande nave, ma le istruzioni precise sono andate anch'esse perdute. Dopo un diluvio di sette giorni, Ziusudra procede ai sacrifici richiesti e si prostra poi di fronte ad An, il dio del cielo, ed Enlil, il capo degli dei. Riceve in cambio la vita eterna a Dilmun, l'Eden sumero l'epopea babilonese di Gilgamesh racconta le avventure di Uta-Napishtim (in realtà una traduzione di «Ziusudra» in accadico), originario di Shuruppak. Ellil (equivalente di Enlil), signore degli dei, vuole distruggere l'umanità con un diluvio. Il dio Ea (equivalente di Enki) consiglia ad Uta-Napishtim di distruggere la sua casa di canne e di utilizzarne il materiale per costruire un'arca, che deve caricare con oro, argento, e la semenza di tutte le creature viventi e anche di tutti i suoi artigiani. Dopo una tempesta durata sette giorni ed altri dodici giorni passati alla deriva sulle acque, l'imbarcazione si arena sul monte Nizir. Dopo altri sette giorni Uta-Napishtim manda fuori una colomba, che ritorna, poi una rondine, che torna indietro anch'essa.
Il corvo, alla fine, non ritorna. Allora Uta-Napishtim fa sacrifici agli dei a gruppi di 7. Quelli sentono il profumo delle carni arrostite e affluiscono "come le mosche". Ellil è infuriato che gli umani siano sopravvissuti, ma Ea lo rimprovera: "Come hai potuto mandare un diluvio in questo modo, senza riflettere? Lascia che il peccato riposi sul peccatore, e il misfatto sul malfattore. Fermati, non lasciare che accada ed abbi pietà [che gli uomini non periscano]". Uta-Napishtim e sua moglie ricevono allora il dono dell'immortalità, e se ne vanno ad abitare "lontano, alla foce dei fiumi".
Nel III secolo a.C. Berose, gran sacerdote del tempio di Marduk a Babilonia, redisse in greco una storia della Mesopotamia (Babyloniaka) per Antioco I, che regnò dal 323 a.C. al 261 a.C. L'opera è andata perduta, ma lo storico cristiano Eusebio di Cesarea, all'inizio del IV secolo, ne trasse la leggenda di Xisuthrus, una versione greca di Ziusudra ampiamente simile al testo originale. Eusebio riteneva che l'imbarcazione fosse ancora visibile "sui monti corcirii d'Armenia; e la gente gratta il bitume con il quale essa era stata rivestita all'esterno per utilizzarlo come antidoto o amuleto»."
Fonte (Il mito del diluvio universale in varie culture, Alberto De Munari).
Il racconto biblico dell'Arca di Noè presenta delle somiglianze con il mito sumero dell'epopea di Gilgamesh, che narra di un antico re di nome Utnapishtim che fu invitato dal suo dio personale a costruire un battello, nel quale avrebbe potuto salvarsi dal diluvio inviato dal consesso degli dei. La più antica versione dell'epopea di Atrahasis è stata datata all'epoca del regno del pronipote di Hammurabi, Ammisaduqa (tra il 1646 a.C. e il 1626 a.C.), ed ha continuato ad essere riproposta fino al primo millennio a.C. La leggenda di Ziusudra, a giudicare dalla scrittura, potrebbe risalire alla fine del XVI secolo a.C., mentre la storia di Utnapishtim, che ci è nota grazie a manoscritti del primo millennio a.C., è probabilmente una variazione dell'epopea di Athrasis. Le varie leggende mesopotamiche sul Diluvio hanno conosciuto una notevole longevità, tanto che alcune di esse sono state trasmesse fino al III secolo a.C.
Gli archeologi hanno trovato un considerevole numero di testi originali in Lingua sumera, accadica e assira, redatte in caratteri cuneiformi. La ricerca di nuove tavolette prosegue, come la traduzione di quelle già scoperte. Secondo un'ipotesi scientifica, l'evidente parentela tra la tradizione mesopotamica e quella biblica potrebbe avere come radice comune la rapida salita delle acque nel bacino del Mar Nero, oltre 7 millenni fa, a causa della rottura della diga naturale costituita dallo stretto del Bosforo. L'epopea di Athrasis, scritta in accadico (la lingua dell'antica Babilonia), racconta come il dio Enki ingiunge all'eroe Shuruppak di smantellare la propria casa, fatta di canne, e di costruire un battello per sfuggire al diluvio che il dio Enlil, infastidito dal rumore delle città, intende mandare per sradicare l'umanità.
Il battello deve disporre di un tetto "simile a quello di Apsû" (l'oceano sotterraneo di acqua dolce di cui Enki è signore), di un ponte inferiore e di uno superiore, e deve essere impermeabilizzato con bitume Athrasis sale a bordo con la sua famiglia e i suoi animali, e ne sigilla l'entrata. La tempesta e il diluvio cominciano, "i cadaveri riempiono il fiume come libellule", e anche gli dei si spaventano. Dopo 7 giorni il diluvio cessa, e Athrasis offre dei sacrifici. Enlil è furioso, ma Enki lo sfida apertamente, dichiarando di essersi impegnato alla preservazione della vita. Le due divinità si accordano infine su misure diverse, per regolare la popolazione umana. Della storia esiste anche un'altra versione assira più tarda. La leggenda di Ziusudra, scritta in sumero, è stata ritrovata nei frammenti di una tavoletta di Eridu. Essa narra di come lo stesso dio Enki avvertì Ziusudra, (« egli ha visto la vita », in riferimento al dono di immortalità che gli fu concesso dagli dei), re di Shuruppak, della decisione degli dei di distruggere l'umanità ad opera di un diluvio, il passaggio con la spiegazione di questa decisione è andato perduto. Enki incarica allora Ziusudra di costruire una grande nave, ma le istruzioni precise sono andate anch'esse perdute. Dopo un diluvio di sette giorni, Ziusudra procede ai sacrifici richiesti e si prostra poi di fronte ad An, il dio del cielo, ed Enlil, il capo degli dei. Riceve in cambio la vita eterna a Dilmun, l'Eden sumero l'epopea babilonese di Gilgamesh racconta le avventure di Uta-Napishtim (in realtà una traduzione di «Ziusudra» in accadico), originario di Shuruppak. Ellil (equivalente di Enlil), signore degli dei, vuole distruggere l'umanità con un diluvio. Il dio Ea (equivalente di Enki) consiglia ad Uta-Napishtim di distruggere la sua casa di canne e di utilizzarne il materiale per costruire un'arca, che deve caricare con oro, argento, e la semenza di tutte le creature viventi e anche di tutti i suoi artigiani. Dopo una tempesta durata sette giorni ed altri dodici giorni passati alla deriva sulle acque, l'imbarcazione si arena sul monte Nizir. Dopo altri sette giorni Uta-Napishtim manda fuori una colomba, che ritorna, poi una rondine, che torna indietro anch'essa.
Il corvo, alla fine, non ritorna. Allora Uta-Napishtim fa sacrifici agli dei a gruppi di 7. Quelli sentono il profumo delle carni arrostite e affluiscono "come le mosche". Ellil è infuriato che gli umani siano sopravvissuti, ma Ea lo rimprovera: "Come hai potuto mandare un diluvio in questo modo, senza riflettere? Lascia che il peccato riposi sul peccatore, e il misfatto sul malfattore. Fermati, non lasciare che accada ed abbi pietà [che gli uomini non periscano]". Uta-Napishtim e sua moglie ricevono allora il dono dell'immortalità, e se ne vanno ad abitare "lontano, alla foce dei fiumi".
Nel III secolo a.C. Berose, gran sacerdote del tempio di Marduk a Babilonia, redisse in greco una storia della Mesopotamia (Babyloniaka) per Antioco I, che regnò dal 323 a.C. al 261 a.C. L'opera è andata perduta, ma lo storico cristiano Eusebio di Cesarea, all'inizio del IV secolo, ne trasse la leggenda di Xisuthrus, una versione greca di Ziusudra ampiamente simile al testo originale. Eusebio riteneva che l'imbarcazione fosse ancora visibile "sui monti corcirii d'Armenia; e la gente gratta il bitume con il quale essa era stata rivestita all'esterno per utilizzarlo come antidoto o amuleto»."
Fonte (Il mito del diluvio universale in varie culture, Alberto De Munari).
Titanomachia
Tra la Macedonia e la Tessaglia, nella Grecia, vi è una catena di montagne. La sua vetta più alta si disperde tra le nuvole. È la sede degli dei, l’Olimpo, la fantastica reggia dalla quale Crono, e prima di lui Urano, domina su tutte le cose.
È il simbolo della somma potenza di cui Zeus vuole impadronirsi, togliendola al padre che se ne è reso indegno. Ben presto si formano gli schieramenti: Oceano con la moglie Teti, Iperione e Thea, le Titanidi Temi e Mnemosine, si pongono al fianco di Zeus contro il loro fratello. Fedeli a Crono rimangono invece Giapeto, Crio, Ceo e la sua sposa Febe. Rhea, moglie di Crono, madre di Zeus, non interviene. Esattamente dirimpetto al monte Olimpo sorge nella Ftiotide il monte Otri. Da là Zeus e i suoi alleati sferrano l’attacco fatale.
La battaglia inizia e si protrae per lunghi anni. Le forze equivalenti delle due parti pare non consentano soluzioni: dieci anni di cataclismi, in cui la terra, scossa da un continuo tremito, travolge montagne e valli. Orribili baratri si formano ovunque. I venti soffiano con l’impeto degli uragani. Tempeste e piogge inondano i campi fertili, il mare sconvolto rischia di sommergere la terra. Bollono i vulcani e sputano lava incandescente e fumo che oscura il cielo, ma i Titani, incrollabili, non cedono. Nelle profondità della terra, nel buio Tartaro, i Ciclopi e gli Ecatonchiri giacciono dimenticati, stretti in catene, resi impotenti dal cieco terrore di Urano, spodestato da Crono, che non ha tenuto fede alla promessa di liberarli fatta un tempo a Gea.
Improvvisamente, estenuato dalla lunga lotta micidiale, Zeus si ricorda di loro. Come non averci pensato prima? Sceso nel Tartaro libera i giganti prigionieri conquistandoli alla sua causa. Le sorti della battaglia mutano totalmente. I fulmini volteggiano, divampano gli incendi, luci accecanti abbagliano i difensori dell’Olimpo. Il fragore assordante del tuono si aggiunge ai boati della terra e a quello dei massi di roccia che le cento e cento mani degli Ecatonchiri staccano dalle montagne e fanno ruzzolare sulle forze nemiche. Ciclopi ed Ecatonchiri si battono accaniti e Zeus, rinfrancato, raddoppia in forze e furore. Finalmente Crono, sopraffatto, stanco e indebolito, precipita con Giapeto, Crio, Ceo e Febe negli abissi della terra, ma eternamente schierata dalla parte del più debole, Gea tenta per loro un ultimo salvataggio. Il Tartaro (o Erebo), figlio del Caos, custodisce il vinto re e i suoi seguaci. Con il Tartaro Gea dà vita ad un mostro chiamato Tifeo. Gigantesco essere tra l’umano ed il ferino, Tifeo ha cento teste da ognuna delle quali sibilano lingue nerastre e velenose.
Fiamme gli escono dagli occhi. La sua statura supera quella delle montagne. Le sue braccia, distese, raggiungono i confini della terra. Nulla può far supporre che egli non sia in grado di strappare a Zeus o a chiunque altro lo scettro divino. Le sorti della battaglia sono nuovamente in gioco!
I Ciclopi, asserviti a Zeus e a lui oramai eternamente devoti, non trascurano mezzi per dimostrargli la loro gratitudine: essi sono “il tuono”, “Il lampo” e “la folgore”, come ricorderemo, e queste armi essi pongono al servizio del loro benefattore.
Basterà uno solo dei fulmini dei Ciclopi, scagliato da Zeus contro il terribile mostro Tifeo, per annientarlo e assicurare a Zeus, questa volta definitivamente, la signoria dell’universo. Oramai padrone assoluto dell’arma invincibile, i fulmini, che i Ciclopi fabbricheranno costantemente per lui, egli è finalmente in grado di difendere la sua supremazia.
Custodito dai suoi antichi prigionieri, Crono, con i fratelli alleati, giace incatenato nel Tartaro. Ha rigettato, costretto da Giove, i primi cinque figli: Ade, Poseidon, Hera, Estia e Demetra. Con loro Zeus ripartisce regno e poteri. Ad Ade assegna il mondo sotterraneo, a Poseidon il mare. Sceglie egli stesso come sposa legittima la sorella Hera. Estia sarà la dea del focolare domestico, e Demetra la personificazione della forza generatrice della terra, la terra madre, la madre del grano. Per sé Zeus riserva il cielo e la terra e, in particolare, l’Olimpo.
Da Hera avrà cinque figli e saranno i soli legittimi tra le centinaia di cui riempirà il mondo: Ares, il dio della guerra; Efesto, il dio del fuoco; Eris, la dea della discordia; Illizia, la levatrice divina; Ebe, la libatrice degli dei. Inoltre, esclusivamente sua, scaturita completamente armata dalla sua testa, somma personificazione della sua potenza e del suo valore, la figlia Atena, dea dell’intelligenza e della guerra, costituirà, per il re degli dei, motivo del massimo orgoglio e vanto. Sistemate le premesse per il suo regno, ancora una cosa resta da fare: Atlante, il figlio del Titano rivale Giapeto, ha osato, con il fratello Menezio, parteggiare con il padre contro di lui. È necessario punirlo per non ritrovarselo contro, un giorno. Zeus escogita un castigo esemplare: la statura di Atlante è immensa, il suo nome significa “colui che sopporta” e le sue spalle sono possenti: Giove vi appoggia sopra tutta la volta del cielo!
Per l’eternità le stelle sfileranno fra le sue dita e subordinato a lui sarà il destino degli uomini.
Fonte (Leggende e tragedie della mitologia greca, Chiara Rossi Collevati)
È il simbolo della somma potenza di cui Zeus vuole impadronirsi, togliendola al padre che se ne è reso indegno. Ben presto si formano gli schieramenti: Oceano con la moglie Teti, Iperione e Thea, le Titanidi Temi e Mnemosine, si pongono al fianco di Zeus contro il loro fratello. Fedeli a Crono rimangono invece Giapeto, Crio, Ceo e la sua sposa Febe. Rhea, moglie di Crono, madre di Zeus, non interviene. Esattamente dirimpetto al monte Olimpo sorge nella Ftiotide il monte Otri. Da là Zeus e i suoi alleati sferrano l’attacco fatale.
La battaglia inizia e si protrae per lunghi anni. Le forze equivalenti delle due parti pare non consentano soluzioni: dieci anni di cataclismi, in cui la terra, scossa da un continuo tremito, travolge montagne e valli. Orribili baratri si formano ovunque. I venti soffiano con l’impeto degli uragani. Tempeste e piogge inondano i campi fertili, il mare sconvolto rischia di sommergere la terra. Bollono i vulcani e sputano lava incandescente e fumo che oscura il cielo, ma i Titani, incrollabili, non cedono. Nelle profondità della terra, nel buio Tartaro, i Ciclopi e gli Ecatonchiri giacciono dimenticati, stretti in catene, resi impotenti dal cieco terrore di Urano, spodestato da Crono, che non ha tenuto fede alla promessa di liberarli fatta un tempo a Gea.
Improvvisamente, estenuato dalla lunga lotta micidiale, Zeus si ricorda di loro. Come non averci pensato prima? Sceso nel Tartaro libera i giganti prigionieri conquistandoli alla sua causa. Le sorti della battaglia mutano totalmente. I fulmini volteggiano, divampano gli incendi, luci accecanti abbagliano i difensori dell’Olimpo. Il fragore assordante del tuono si aggiunge ai boati della terra e a quello dei massi di roccia che le cento e cento mani degli Ecatonchiri staccano dalle montagne e fanno ruzzolare sulle forze nemiche. Ciclopi ed Ecatonchiri si battono accaniti e Zeus, rinfrancato, raddoppia in forze e furore. Finalmente Crono, sopraffatto, stanco e indebolito, precipita con Giapeto, Crio, Ceo e Febe negli abissi della terra, ma eternamente schierata dalla parte del più debole, Gea tenta per loro un ultimo salvataggio. Il Tartaro (o Erebo), figlio del Caos, custodisce il vinto re e i suoi seguaci. Con il Tartaro Gea dà vita ad un mostro chiamato Tifeo. Gigantesco essere tra l’umano ed il ferino, Tifeo ha cento teste da ognuna delle quali sibilano lingue nerastre e velenose.
Fiamme gli escono dagli occhi. La sua statura supera quella delle montagne. Le sue braccia, distese, raggiungono i confini della terra. Nulla può far supporre che egli non sia in grado di strappare a Zeus o a chiunque altro lo scettro divino. Le sorti della battaglia sono nuovamente in gioco!
I Ciclopi, asserviti a Zeus e a lui oramai eternamente devoti, non trascurano mezzi per dimostrargli la loro gratitudine: essi sono “il tuono”, “Il lampo” e “la folgore”, come ricorderemo, e queste armi essi pongono al servizio del loro benefattore.
Basterà uno solo dei fulmini dei Ciclopi, scagliato da Zeus contro il terribile mostro Tifeo, per annientarlo e assicurare a Zeus, questa volta definitivamente, la signoria dell’universo. Oramai padrone assoluto dell’arma invincibile, i fulmini, che i Ciclopi fabbricheranno costantemente per lui, egli è finalmente in grado di difendere la sua supremazia.
Custodito dai suoi antichi prigionieri, Crono, con i fratelli alleati, giace incatenato nel Tartaro. Ha rigettato, costretto da Giove, i primi cinque figli: Ade, Poseidon, Hera, Estia e Demetra. Con loro Zeus ripartisce regno e poteri. Ad Ade assegna il mondo sotterraneo, a Poseidon il mare. Sceglie egli stesso come sposa legittima la sorella Hera. Estia sarà la dea del focolare domestico, e Demetra la personificazione della forza generatrice della terra, la terra madre, la madre del grano. Per sé Zeus riserva il cielo e la terra e, in particolare, l’Olimpo.
Da Hera avrà cinque figli e saranno i soli legittimi tra le centinaia di cui riempirà il mondo: Ares, il dio della guerra; Efesto, il dio del fuoco; Eris, la dea della discordia; Illizia, la levatrice divina; Ebe, la libatrice degli dei. Inoltre, esclusivamente sua, scaturita completamente armata dalla sua testa, somma personificazione della sua potenza e del suo valore, la figlia Atena, dea dell’intelligenza e della guerra, costituirà, per il re degli dei, motivo del massimo orgoglio e vanto. Sistemate le premesse per il suo regno, ancora una cosa resta da fare: Atlante, il figlio del Titano rivale Giapeto, ha osato, con il fratello Menezio, parteggiare con il padre contro di lui. È necessario punirlo per non ritrovarselo contro, un giorno. Zeus escogita un castigo esemplare: la statura di Atlante è immensa, il suo nome significa “colui che sopporta” e le sue spalle sono possenti: Giove vi appoggia sopra tutta la volta del cielo!
Per l’eternità le stelle sfileranno fra le sue dita e subordinato a lui sarà il destino degli uomini.
Fonte (Leggende e tragedie della mitologia greca, Chiara Rossi Collevati)
Mito degli Apache
All'inizio non esisteva niente, solo il buio era ovunque.
Improvvisamente dal buio si vide un sottile disco, giallo da un lato e bianco dall'altro, che sembrava sospeso in aria. All'interno del disco era seduto un piccolo uomo con barba, il Creatore, "Colui che vive al di sopra". Quando egli guardò nel buio infinito, la luce apparve in alto. Egli guardò in giù e sotto si creò un mare di luce. A est, egli creò le strisce gialle dell'alba. Ad ovest, tinte di diversi colori apparvero ovunque. C'erano anche nubi di diversi colori. Egli creò anche tre altri Dei: una piccola ragazza, il Dio Sole e un piccolo ragazzo. Poi creò i venti, la tarantola e la terra, in forma di una pallina marrone non più grande di un fagiolo. Fece la terra con il suo sudore e quello degli altri Dei mescolandolo nelle sue mani. Il mondo poi fu allargato fino alla sua attuale forma dagli Dei che prendevano a calci la piccola palla marrone. Il Creatore disse al Vento di andare dentro alla sfera e di farla esplodere. La tarantola fece un filo nero e, attaccandolo alla sfera, scappò ad est tirandosi dietro il filo con tutta la sua forza. Poi fece la stessa cosa con un filo blu, tirando questa volta verso sud, poi con un filo giallo verso l'ovest e infine con un filo bianco verso il nord. Con grandi strattoni in ogni direzione, la sfera si allargò fino ad una grandezza non misurabile. Diventò la Terra! Non c'erano colline, montagne o fiumi ma solo pianure soffici e senza alberi. Allora il Creatore creò il resto degli esseri e delle bellezze della Terra.
Fonte: Miti sulla nascita della civiltà, Apache
Improvvisamente dal buio si vide un sottile disco, giallo da un lato e bianco dall'altro, che sembrava sospeso in aria. All'interno del disco era seduto un piccolo uomo con barba, il Creatore, "Colui che vive al di sopra". Quando egli guardò nel buio infinito, la luce apparve in alto. Egli guardò in giù e sotto si creò un mare di luce. A est, egli creò le strisce gialle dell'alba. Ad ovest, tinte di diversi colori apparvero ovunque. C'erano anche nubi di diversi colori. Egli creò anche tre altri Dei: una piccola ragazza, il Dio Sole e un piccolo ragazzo. Poi creò i venti, la tarantola e la terra, in forma di una pallina marrone non più grande di un fagiolo. Fece la terra con il suo sudore e quello degli altri Dei mescolandolo nelle sue mani. Il mondo poi fu allargato fino alla sua attuale forma dagli Dei che prendevano a calci la piccola palla marrone. Il Creatore disse al Vento di andare dentro alla sfera e di farla esplodere. La tarantola fece un filo nero e, attaccandolo alla sfera, scappò ad est tirandosi dietro il filo con tutta la sua forza. Poi fece la stessa cosa con un filo blu, tirando questa volta verso sud, poi con un filo giallo verso l'ovest e infine con un filo bianco verso il nord. Con grandi strattoni in ogni direzione, la sfera si allargò fino ad una grandezza non misurabile. Diventò la Terra! Non c'erano colline, montagne o fiumi ma solo pianure soffici e senza alberi. Allora il Creatore creò il resto degli esseri e delle bellezze della Terra.
Fonte: Miti sulla nascita della civiltà, Apache
Orione
Ci sono numerose e conflittuali storie sulla morte di Orione.
Mitografi astronomi come Arato di Soli, Eratostene e Igino concordarono che vi
fu implicato uno scorpione. Una versione, quella raccontata sia da Eratostene che da Igino, sostiene che Orione si vantasse di essere il più abile dei cacciatori. Egli disse ad Artemide, la dea della caccia, e alla madre di lei, Latona, che poteva uccidere qualsiasi bestia sulla Terra.
La Terra fremette d'indignazione e da una spaccatura del terreno fece uscire uno scorpione che punse a morte il gigante presuntuoso. Arato, invece, dice che Orione tentò di rapire la vergine Artemide e che fu lei a causare la spaccatura della Terra dalla quale uscì lo scorpione. Ovidio ha ancora un'altra versione: dice che Orione fu ucciso nel tentativo di salvare Latona dallo scorpione. Anche la dislocazione è diversa. Eratostene e Igino dicono che la morte avvenne a Creta, ma Arato la fa accadere a Chio. In entrambe le versioni il risultato fu che Orione e lo scorpione (la costellazione dello Scorpione) furono sistemati su lati opposti del cielo, in modo che mentre lo Scorpione sorge a est, Orione fugge sotto l'orizzonte a ovest.
«L'infelice Orione teme ancora di essere ferito dal pungiglione velenoso dello scorpione», notò Germanico Cesare.
Fonte: Miti sulle costellazioni
Mitografi astronomi come Arato di Soli, Eratostene e Igino concordarono che vi
fu implicato uno scorpione. Una versione, quella raccontata sia da Eratostene che da Igino, sostiene che Orione si vantasse di essere il più abile dei cacciatori. Egli disse ad Artemide, la dea della caccia, e alla madre di lei, Latona, che poteva uccidere qualsiasi bestia sulla Terra.
La Terra fremette d'indignazione e da una spaccatura del terreno fece uscire uno scorpione che punse a morte il gigante presuntuoso. Arato, invece, dice che Orione tentò di rapire la vergine Artemide e che fu lei a causare la spaccatura della Terra dalla quale uscì lo scorpione. Ovidio ha ancora un'altra versione: dice che Orione fu ucciso nel tentativo di salvare Latona dallo scorpione. Anche la dislocazione è diversa. Eratostene e Igino dicono che la morte avvenne a Creta, ma Arato la fa accadere a Chio. In entrambe le versioni il risultato fu che Orione e lo scorpione (la costellazione dello Scorpione) furono sistemati su lati opposti del cielo, in modo che mentre lo Scorpione sorge a est, Orione fugge sotto l'orizzonte a ovest.
«L'infelice Orione teme ancora di essere ferito dal pungiglione velenoso dello scorpione», notò Germanico Cesare.
Fonte: Miti sulle costellazioni